Il racconto

Berlinguer, aiutaci tu: la grande mostra per il segretario-bussola della sinistra spaesata

Simone Canettieri

All'ex Mattatoio di Testaccio, a Roma, dal 15 dicembre l'evento dedicato al leader mai dimenticato, eterno monito per il Pd, che si perpetua anche al cinema

Quel naso triste da italiano allegro. La spazzola anarchica in testa. La posa perplessa. Il capo piegato. Una mano gli accarezza il mento. L’altra è dietro le spalle. E’ appoggiato a una colonna, dicono. Medita. Chissà cosa penserebbe dell’armocromica sinistra italiana di fine 2023. Chissà di cosa parlerebbe con la sua ultima discendente, l’inafferrabile Elly, che però frequenta con una certa assiduità il salotto tv della figlia Bianca (unica occasione di incursioni a Mediaset).

 

Chissà se gli hanno raccontato della nuova vita di Max D’Alema, che appena 35enne lo accompagnò a Mosca per l’ultima volta, e che adesso si lecca i baffi facendo il lobbista di respiratori cinesi e armi colombiane, disciamo. Chissà – e la piantiamo, va bene – se si è letto e guardato tutta l’opera omnia che Walter-Netflix-Veltroni continua a dedicargli, infaticabile, per stringerlo a sé, per non lasciarlo andare dopo quasi 40 anni  che non c’è più. Enrico Berlinguer, santino-icona prega per noi, ti accoglie a Testaccio così. 

  

   
Rapido zoom: siamo nel quartiere de sinistra salutato all’ingresso da un palazzone che si chiama pure Cremlino (dove abita Enrico Letta), la tomba acattolica di Antonio Gramsci a due passi, e nostalgici vialetti macalusiani. Strade ora calpestate anche dalla queen del Pd, Elly Schlein, che qui risiede e che da qui prova a governare il caos (non quello di Roma: è impossibile). E ad arginare le famose derive orbaniane di Giorgia Meloni. Elly ti presento Enrico. Giancarlo Pajetta ironizzò, fulminante, che Berlinguer si era iscritto giovanissimo direttamente alla direzione del Pci. Schlein, come si si sa, ha superato tutti i record: è diventata segretaria di un partito a cui non era iscritta (è successo anche a Giuseppe Conte con il M5s, a dirla tutta). Altri tempi e nuovi mondi. E comunque: la foto del manifesto di questa mostra-memoriale è quella appena descritta. E’ stata scattata a Brescia negli anni 70 dalla macchina di Renato Corsini, prima di un comizio. I capelli del leader del Pci sono ancora nero corvino, Aldo Moro non è stato sequestrato. L’immagine è srotolata all’ingresso dell’ex Mattatoio, che se ospita cose di sinistra diventa subito spunto di facili e granguignolesche ironie. Lo sguardo del dolce Enrico, qui lo chiamano tutti per nome, non ti molla. Mai. E non va né su né giù. Non si digerisce. Ti insegue. Ti si ripropone per tutta la visita, come certe carbonare che ti servono in zona. Il “Nostro” è la bussola muta e severa della sinistra: noio volevan savuar, per andare dove dobbiamo andare dove dobbiamo andare?


“La memoria, la memoria. La memoria è tutto: questi ragazzi non studiano abbastanza, qui bisogna studiare, prepararsi. Interroghiamoci sempre su cosa abbiamo fatto noi per impedire alla destra di governare”, Ugo Sposetti ridacchia. E forse, anzi sicuramente, ce l’ha pure con i pischelli del Pd, la nouvelle vague in assemblea permanente. Baffi candidi ma da satanasso, neo nonno, occhi vispi, cellulare vintage, sciarpone blu Cina (sicuramente non Estoril). Inizi da ferroviere nella sua Tolentino, e subito turbo carriera da funzionario di partito, con annesso trapianto amministrativo a Viterbo. “Enrico lo conobbi nel ’72: ero vicepresidente della provincia”.

 

Il compagno U, 77 anni a gennaio, è formidabile nelle raccolte fondi per le iniziative che contano e restano. Lo chiamano Fra Galdino. E’ il depositario del nostrano oro di Stalingrado: il mattone rosso. Gestisce, attraverso una ragnatela di 63 fondazioni sparse per l’Italia, le duemila e fischia sedi che dal Pci sono arrivate al Pds e ai Ds. Senza finire in dote al Pd. Meglio non fidarsi, forse avrà pensato. Ah certo, Sposetti è ancora il tesoriere della Quercia: partito civilisticamente vivo e vegeto che riunisce al cospetto di un notaio (ma anche di D’Alema e Fassino, tra gli altri) una volta all’anno nella sede dell’associazione Berlinguer di cui è il presidente. Questo comitato centrale rivive ogni dodici mesi per l’approvazione del bilancio. L’ultima volta, lo scorso luglio: le sedute spiritiche dei Ds, che sublime serie tv che sarebbero.  

   

   

Sposetti vendette Botteghe oscure alla famiglia Angelucci (del capostipite Antonio, deputato, imprenditore e soprattutto editore della “Fox news” melonista fatta di giornali e presto anche di radio). Si è trovato a gestire un buco di 584 milioni di euro perché con la caduta del Muro la sera non andavamo più a Mosca, figurarsi in Via Veneto. E’ l’ultimo comunista, lo zio Ugo. “Scrivilo: io non sono un pentito. Sfilavo per il Vietnam, contestavo la Nato, urlavo ‘Nixon go home’. Senti, entriamo va”.


La mostra “I luoghi e le parole di Enrico Berlinguer” aprirà il 15 dicembre per un’inaugurazione stile album di famiglia. “Ci saranno tutti, ma tutti tutti: Elly, Massimo, Walter, Pier Luigi, Achille, il sindaco Roberto”, dice Sposetti accarezzando il suo Nokia da museo come se fosse una Colt. L’ambaradan è finanziato anche dalla struttura di Missione anniversari nazionali della presidenza del Consiglio. In un derby con John Ronald Reuel Tolkien. La cui mostra è stata aperta, di persona personalmente, dalla premier Meloni lo scorso novembre. Con tanto di visita privata e pesante delegazione ministeriale di patrioti al seguito. La militanza e l’immaginario. Egemonia e contro egemonia. Le due iniziative termineranno il prossimo 11 febbraio. Lo stesso giorno. Che caso. Dalla curva sud di Testaccio, settore ospiti visto lo spirito del tempo, sono pronti a urlare: “Che ce frega de Lo Hobbit noi c’avemo Enrico-gol!”.

 

Chissà che non si presenti alla fine anche la capa di Fratelli d’Italia e del governo, riproducendo in scala nanometrica ma assai simbolica il tributo che Giorgio Almirante rese al segretario del Pci, visitando la camera ardente allestita a Botteghe Oscure, contro il consiglio di donna Assunta. Nel 1984 Meloni aveva sette anni, Schlein sarebbe nata l’anno dopo. Sposetti: “Ho appoggiato Elly alle primarie: mobilita, ma deve rafforzare la squadra”.  


Per volontà dei curatori – Alessandro d’Onofrio, Alexander Höbel e Gregorio Sorgonà – nelle cinque aree tematiche in cui è divisa l’esposizione (mix di carte e digitale, suoni e video) si dedica uno spazio piccolissimo ai funerali di Berlinguer in piazza San Giovanni. Quanto di più travolgente ci sia stato nella storia della sinistra, pugni chiusi al cielo e lacrime. Una decisione presa da Sposetti e dalla coordinatrice organizzativa Vittoria Grifone. Insomma, l’idea è quella di riflettere e non solo di emozionarsi. Di dare spunti e non kleenex per asciugarsi il pianto in un secondo eterno funerale. Effetto che un po’ alla fine uscirà fuori ugualmente. D’altronde come con Che Guevara, Kennedy e Mandela qui siamo nell’iconografia spinta che abbraccia il mito e diventa quasi trasversale (alla vigilia delle europee 2014 si assistette anche all’invocazione Ber-lin-gu-er, Ber-lin-gu-er chiamata da Gianroberto Casaleggio). Lo dimostra anche l’ultimo film a tema di un’antologia sterminata. Si chiama la “Grande ambizione”: il nobile segretario sardo sarà interpretato da Elio Germano, dimensione pubblica e privata.

 

E’ un’opera che sta girando Andrea Segre e che se tutto va bene sarà presentata al festival di Cannes. Si inserisce in un rosario di film e documentari. Veltroni ha già all’attivo, oltre a libri e prefazioni, un documentario e un film (l’ultimo è “Quando” con Neri Marcorè che il giorno del Funerale perde coscienza incocciando la testa sull’asta di una bandiera del Pci e si risveglia dopo oltre trent’anni, un bel po’ disorientato).

 
Per visitare come si deve i due padiglioni che sembrano navate di una chiesa occorre prendersi un giorno di ferie. Tanta è la mole della roba, nell’accezione verghiana del termine, esposta. Si parte con gli affetti e con gli effetti personali: la scrivania, gli occhiali e l’orologio indossati il giorno dell’ultimo e tragico comizio a Padova il 7 giugno 1984. La famiglia – e dunque i quattro figli: Bianca, Maria, Laura e Marco – ha messo a disposizione l’archivio privato con foto di vacanze all’isola d’Elba ma anche alle feste dell’Unità, e libri, tantissimi. Dai bauli di fondazioni (dalla Gramsci a quelle locali) e dall’associazione madre spuntano le lettere e i biglietti, botta e risposta, con Gillo Pontecorvo, Luigi Pintor, Renato Guttuso, Rafael Alberti. Poi c’è l’Enrico dirigente: la delega in rappresentanza della federazione di Sassari al VI congresso del Pci a Milano nel 1948, il verbale del comitato regionale sardo che lo nomina vicesegretario nel 1957, il dibattito della direzione del Pci nel ’68 in vista del dibattito di Ariccia sul movimento studentesco, la lettera di Giorgio La Pira del 1969…

  

E poi i documenti: ecco l’inchiostro verde di Palmiro Togliatti. Attraverso tripoline che proiettano video d’epoca (Giovanni Minoli ha concesso le sue fantastiche interviste al segretario a Mixer) si passa al terzo schema: quello della crisi italiana. L’austerity, il compromesso storico, il sequestro Moro con le corrispondenze con lo statista diccì, i biglietti teneri e rispettosi con la di lui moglie dopo il massacro delle Br, il discorso per la fiducia al governo dattiloscritto e poi cambiato e buttato giù a penna dopo in quel 16 marzo del 1978. Si passa sotto campane di vetro che riproducono i discorsi più significativi del leader, si ritrovano le corrispondenze con uno spiritoso Giulio Andreotti. Documenti e carte, ma anche un sistema digitale per navigare nella memoria con un tocco. Si ricordano battaglie e dibattiti: i consultori famigliari, la legge Merli sull’inquinamento, l’abrogazione del delitto d’onore e del matrimonio riparatore, la riforma del diritto di famiglia, il divorzio. Spunta lo zio Ugo: “La mia generazione è stata fortunata: usciva di casa e trovava la sede di un partito o di un sindacato. Guarda, guarda queste cose che belle”. L’idea di avere davanti il segretario d’Italia si trasforma poi nel racconto del politico globale: le copertine del Time, i viaggi a Mosca, gli appunti manoscritti sulla legge marziale in Polonia e sul celeberrimo “esaurimento della spinta propulsiva”, i viaggi in Vietnam, a Cuba, l’incontro con Willy Brandt a Strasburgo, 16 dicembre 1981. Le svolte, le interviste. La storia e le traiettorie, giuste e non azzeccate. I ritardi e le rincorse alla storia. La questione morale come denuncia che negli anni si trasformerà in boomerang moralista, brodo di coltura, per ultimo, dei grillini: onestà, onestà.

  
Colpisce questo sì, in tempi di intelligenza artificiale, un libretto tratto da un’intervista di Ferdinando Adornato nel dicembre 1983 per lo speciale dell’Unità dedicato alla temuta profezia del romanzo di Orwell “1984”. E’ un elogio, ragionato, dei computer. A rileggerlo sembra cervellotico, ma ai tempi significò qualcosa. Per uscire dalla modalità culto gli organizzatori hanno pensato di esporre anche le prime pagine del Male, le vignette dissacranti del maestro fogliante Vincino e di Giorgio Forattini (ce n’è una con Berlinguer che da un terrazzo, in giacca da camera e sorseggiando un tè, assiste impassibile e british a una manifestazione di operai: lo fece andare su tutte le furie). Il resto, cioè tutto, è da vedere per testimoni, nostalgici, studiosi, feticisti, appassionati e aspiranti leader del Pd. Si esce dall’ex Mattatoio di Testaccio inseguiti sempre da questa gigantografia del segretario eterno. Eureka. Si capisce a cosa stia pensando. E’ la trasposizione della mitologica scena del film “Compagni di scuola”. La sinistra è il malandato Fabris: “Guàrdate com’eri. Guàrdate come sei: me pari tu zio!”.

  • Simone Canettieri
  • Viterbese, 1982. Al Foglio da settembre 2020 come caposervizio. Otto anni al Messaggero (in cronaca e al politico). Prima ancora in Emilia Romagna come corrispondente (fra nascita del M5s e terremoto), a Firenze come redattore del Nuovo Corriere (alle prese tutte le mattine con cronaca nera e giudiziaria). Ha iniziato a Viterbo a 19 anni con il pattinaggio e il calcio minore, poi a 26 anni ha strappato la prima assunzione. Ha scritto per Oggi, Linkiesta, inserti di viaggi e gastronomia. Ha collaborato con RadioRai, ma anche con emittenti televisive e radiofoniche locali che non  pagavano mai. Premio Agnes 2020 per la carta stampata in Italia. Ha vinto anche il premio Guidarello 2023 per il giornalismo d'autore.