(foto Ansa)

il grande freddo

Lega irritata per la riforma costituzionale che parte dal Senato. E sempre più tiepida sul referendum

Luca Roberto

Nel Carroccio hanno vissuto come una forma di controllo l'avvio dell'iter del ddl costituzionale a Palazzo Madama: "Il Parlamento non è un Consiglio comunale". I dubbi sulla chiamata alle urne e i 18 mesi di esposizione

Che non abbiano alcuna intenzione di fare uno sforzo in più, lo prova il fatto che dalla Lega abbiano dedicato alla riforma costituzionale poche righe di commento. Lo stesso Matteo Salvini in conferenza stampa, al termine del Cdm della scorsa settimana, si è limitato a legare il premierato alla legge sull’autonomia, “che è ancora più importante”, parlandone per alcuni secondi, prima di arrivare a disquisire di tutt’altro: disabili e danni alle infrastrutture dopo l’alluvione in Toscana. E allora dalle parti di Palazzo Chigi è maturata la decisione dell’altro giorno: facciamo partire l’iter della riforma costituzionale dal Senato. Ovvero nel ramo del Parlamento in cui è già incardinato il progetto sull’autonomia. Nella stessa commissione Affari costituzionali a cui mancano un paio di articoli e la quantificazione dei Livelli essenziali di prestazione (Lep) per il testo definitivo. Così che l’avanzamento in parallelo dei due dossier sconsigli al Carroccio di metterci quel sovrappiù di inerzia per far caracollare una riforma in cui, in fondo, non ci credono granché. Non è una loro priorità. Non lo nascondono neppure.

 

La scorsa settimana sono passate troppo inosservate le parole del deputato leghista Stefano Candiani, salviniano di ferro da cui di solito echeggiano gli umori di fondo presenti nel partito. “Le riforme istituzionali sono pericolose per chi le fa. Guardate che fine ha fatto l’ultimo che ci ha provato: Renzi”, ha detto in tv. Aggiungendo pure che la chiamata alle urne porterà il paese a dibattere nella forma “pro-contro” per un periodo considerevole: 18 mesi. Ecco perché nella Lega, che nel giugno del 2022 ha portato al voto circa 10 milioni di italiani per i referendum abrogativi sulla giustizia, sanno che un’eventuale mobilitazione sarebbe ad alto rischio di logoramento. Insomma, a non scommetterci è  soprattutto la loro costituency. E questo deve aver insospettito pezzi di Fratelli d’Italia, a partire dalla premier Meloni, sempre più convinti che un’eccessiva timidezza, soprattutto nell’appropinquarsi alla tornata referendaria, potrebbe andare a detrimento di tutta la maggioranza. Il senso è che se dovesse diventare un referendum sul governo, Salvini e i suoi non potrebbero tirarsi indietro nel bel mezzo di una campagna elettorale tosta. E il rischio è che il leghisti questo scenario non lo vogliano. Preferiscano ottenere l’autonomia e fare il minimo indispensabile per le riforme istituzionali. Insistendo, piuttosto, nel rivedere il limite dei due mandati per i sindaci. Cosa che per adesso Meloni non intendere prendere in considerazione.

 

Questo nel lungo termine, un esercizio per ora spericolato visto che in teoria questa maggioranza non ha espunto dal proprio orizzonte la possibilità di ricorrere a un soccorso parlamentare che permetta di raggiungere la maggioranza dei due terzi nelle due camere (sebbene lo stesso ministro per gli Affari regionali e le autonomie Calderoli abbia detto di non credere affatto a questa prospettiva). Ma nel breve periodo, la scelta operata dal governo di partire da Palazzo Madama invece che da Montecitorio qualche strascico immediato rischia di produrlo. Perché è vero che si giustifica anche per evitare un compattamento delle opposizioni (sia Conte che Schlein siedono alla Camera). E però viene letto come un modo per tagliare fuori big leghisti molto rumorosi, il deputato Andrea Crippa su tutti, che pure sull’accordo con l’Albania hanno avuto da ridire, contestando nemmeno troppo tra le righe la politica del governo. “E poi, c’è bisogno di chiarire una cosa. La presidente del Consiglio non può permettersi di trattare il Parlamento come se fosse un Consiglio comunale. Non lo si fa anche solo per ragioni di forma”, dice al Foglio un leghista che conosce bene i dossier che passano dalla commissione competente in materia di riforme istituzionali.

 

Il rischio ulteriore, peraltro, è che le perplessità leghiste, temperate quantomeno da un accordo che tiene assieme premierato e autonomia, possano accoppiarsi con le ritrosie di Forza Italia, forse il partito più aperto a possibili modifiche a livello parlamentare. Soprattutto per quel che riguarda la cosiddetta clausola “anti-ribaltone” che ora come ora rischia di diventare un problema in più per la tenuta della maggioranza, visto che istituzionalizza il meccanismo per scalare il potere all’interno della coalizione e “fare le scarpe” al premier. Paradossalmente a Salvini è una norma che piace: grazie a questa potrebbe attentare alla leadership di Meloni. Ma per adesso, meglio non darlo troppo a vedere.