Perché le follie bancarie di Meloni vanno oltre gli extraprofitti

Valerio Valentini

L'ossessione per Banca d'Italia, la nazionalizzazione di Palazzo Koch e le teorie sulle riserve auree. E poi le teorie complottiste. Leggere le proposte di legge della premier e di Fazzolari degli anni passati spiega le paranoie odierne di Palazzo Chigi, e apre uno suqarcio sulle assurdità del sovranismo in campo economico

E se non fosse finita qui? Se, cioè, il tardivo ravvedimento sulla  tassa sugli extraprofitti non fosse che uno dei primi di una lunga serie di scorribande bancarie di Giorgia Meloni? Il dubbio prende consistenza nel leggere le proposte di legge che negli scorsi anni, la capa di FdI, e insieme a lei i maggiori esponenti del partito che ora ricoprono prestigiosi incarichi di governo, ha depositato in Parlamento. Si va dalla nazionalizzazione di Banca d’Italia alla battaglia patriottica per l’attribuzione allo stato delle riserve auree di Via Nazionale; si passa per il recupero della distinzione tra banche d’affari e banche commerciali; si finisce nell’evocazione immancabile di complotti. E il tutto lo si potrebbe liquidare, certo, come una massa d’anticaglie della stagione dell’opposizione. Se non fosse che da quello stesso calderone di scombiccherate iniziative normative Meloni ha pescato già, eccome, una volta arrivata a Palazzo Chigi.

Non erano, insomma, mere battaglie di testimonianze: di quelle che, nel conforto di chi presidia l’opposizione, e può permettersi il lusso dell’irragionevolezza, sempre si fanno per il solo scopo di poter dire “ci abbiamo provato”, e aizzare la cagnara. Che molte di quelle proposte di legge avanzate da FdI a cui si guardava con un misto di sgomento e di scherno, tempo fa, erano invece espressione di convincimenti profondi, lo dimostra la cronaca di questo primo anno di governo. La richiesta di una cauzione per gli extracomunitari che vogliano avviare un’impresa in Italia, finita nel programma di governo del centrodestra, recupera una proposta di legge depositata a Palazzo Madama, il 20 maggio 2019, da Giovanbattista Fazzolari. Ed è sempre sua, di quello che oggi è il sottosegretario e responsabile della comunicazione di Palazzo Chigi, la paternità, sia pur condivisa col collega Stefano Bertacco,  del “reato universale” applicato alla maternità surrogata, la cui prima formulazione sta in un disegno di legge proposto dai senatori di FdI il 29 marzo 2018.

E dunque, cosa ci dice l’attività parlamentare di Meloni, a proposito delle sue priorità nella riforma del sistema del credito? Anzitutto, una certa ossessione per Via Nazionale. Che si rivela fin dall’inizio della scorsa legislatura. Quando la capa di FdI, appena insediatasi a Montecitorio, propone di nazionalizzare Banca d’Italia. Con un tratto di penna, e nell’illusione che tutto avvenga a costo zero e in maniera indolore: “le quote di proprietà della Banca d’Italia detenute da soggetti privati sono acquisite dal ministero dell’Economia e delle Finanze al loro valore nominale” stabilito nel 1936, scrive, semplicemente Meloni. Una confisca in una manciata di righe, con buona pace della Costituzione e dei bilanci di enti, fondazioni bancarie, casse previdenziali e istituti di credito vari che si vederebbero costretti a subire una requisizione di stampo sudamericano. Certo è che invece certe paranoie non si sono dissolte nel momento in cui la leader di FdI è divenuta premier, se proprio Fazzolari, di fronte alle critiche di Via Nazionale sulla norma che riguardava il Pos, un anno fa, non ha trovato nulla più di saggio da dire se non che “è normale che Banca d’Italia ci critichi, visto che è partecipata da banche private”. 

E non a caso proprio Fazzolari, sempre lui,  si attivava al Senato nel dicembre del 2019, per affermare la proprietà pubblica delle riserve auree di Palazzo Koch. Cosa che, a suo giudizio, non è abbastanza chiara nella legislazione attuale: di qui l’urgenza di “adottare un atto normativo che ribadisca, in maniera esplicita, che le riserve auree sono di proprietà dello stato italiano e non della Banca d’Italia”. Non sia mai che qualcuno, approfittando della distrazione dei vigilanti notturni, ne approfitti per vendere alla Bce i lingotti custoditi nel caveau. E chissà se queste modifiche clamorose allo statuto di Banca d’Italia sono state discusse da Meloni col nuovo designato governatore di Banca d’Italia, Fabio Panetta.

E magari la premier potrà provare a persuadere l’economista romano che “la principale causa del perdurare e dell’aggravarsi della drammatica stretta creditizia è da ricercare nella logica di ‘massimizzazione del profitto’ che ispira le grandi banche sistemiche”. Questo scriveva Meloni nel marzo del 2018 per spiegare una sua proposta di legge in cui invocava la riesumazione del  Glass-Steagall Act, varato da Roosvelet nel 1933, cioè della separazione tra banche d’affari e banche commerciali, così da vietare la “commistione, nel medesimo soggetto bancario, dell’attività di intermediazione creditizia tradizionale con quella delle banche d’affari e del trading speculativo proprietario”. Un grande classico delle retorica cospirazionista a cui FdI non intende rinunciare, se è vero che questa medesima proposta di legge è stata depositata alla Camera, all’avvio di questa legislatura, dal capogruppo Tommaso Foti. “Presentata ma poi ritirata”, precisano a Via della Scrofa. E tocca allora sperare che quel cassetto degli orrori, quello dove il populismo sovranista trovava la sua più raffinata espressione nel complottismo bancario, resti chiuso in questi mesi di campagna elettorale. La crociata sugli extraprofitti, prima lanciata e poi rinnegata nei fatti, può bastare.

  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.