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Il racconto

La Camera magica di Giorgio Napolitano

Carmelo Caruso

Fa inchinare la Francia e la Germania, riunisce intorno alla sua bara il meglio della Repubblica. La vita "migliore" di un irregolare di sinistra che non piaceva a tutta la sinistra

Era davvero un re: per Giorgio Napolitano, la Francia di Macron si è inchinata, la Germania di Steinmeier si è commossa e Giorgia Meloni splendeva di nero.  Invitandoli al suo funerale li ha incoronati tutti senatori a vita. Montecitorio sembrava la sua Montagna incantata, il suo fantaparlamento. Intorno alla bara dell’ex presidente della Repubblica, la bara che non c’era, ma che stava accanto, in Transatlantico, si è  ritrovato il Parlamento che non c’era. In Aula, l’ex premier Mario Draghi stava seduto vicino a Pier Ferdinando Casini. Paolo Gentiloni, oratore, era accomodato in alto, alla sinistra di Anna Finocchiaro, anche lei oratrice, che conserva i biglietti “scritti a mano da te, Giorgio”. L’ad di Eni, Claudio Descalzi, il Siddharta dell’energia, era forse   in mezzo ai  senatori del Pd, dietro ai peletti fulvi di Castagnetti. La sinistra ha perso la sua “i”,  la vocale dritta, la i di Napolitano,   la vocale del lume,  di chi, diceva il comunista   Sposetti, non “voleva solo comandare, ma convincere che il comando era giusto”.


Neppure l’elezione di un presidente della Repubblica sarebbe stata più partecipata di questo saluto a un ex presidente della Repubblica. Il governatore di Bankitalia, Vincenzo Visco, senza occhiali, veniva scambiato per un parlamentare del gruppo Misto. Il vicepremier, Matteo Salvini si è portato, in Aula, il quadernone di lavoro. Gennaro Sangiuliano non era presente e Matteo Orfini scherzava con Vittorio Sgarbi: “Ma lo hai deposto?”. Era solo un modo per esorcizzare, anche questo, il parlar vivo per dimenticare il morto. Si sono fatti trovare tutti al loro posto quando l’auto si è fermata di fronte a piazza Montecitorio e il feretro veniva portato a spalla dai militari. La premier, sui banchi di governo, indossava una giacca con degli alamari d’oro, che erano, sì, un omaggio a Napolitano, il presidente terracqueo che amava Capri e Stromboli: vento, acqua, vongole e buoni libri. Alla Camera, la sua famiglia, i nipotini del Pci, come Provenzano e Orlando, ne rivendicavano invece, e giustamente, la complicità, la vicinanza “napolitana”. Il figlio, quello vero, Giulio Napolitano, una volta presa la parola, li ha salutati, e indistintamente, come “amici di una vita e italiani di ogni provenienza”, venuti per il padre “che ha combattuto buone battaglie, sostenuto cause sbagliate, ma cercato di percorrere sempre strade nuove”. L’ex ministro degli Affari Europei, Enzo Amendola, alle 9.30, entrava da via della Missione ed era come se avesse perso il padre e la strada di casa. Per lui, Napolitano, non era solo un modo di pensare, ma pure di vestire. Era la sua mappa. Si dice ancora “alla Napolitano” per indicare il pantalone che cade leggermente sulla scarpa e il cappello che è compagno del pensare. Il giorno della sua elezione  a presidente, la sua prima, Orlando corse a comprarsi una cravatta di colore rosso. La conserva ancora. Da responsabile della Giustizia del Pd, ricorda  che, un giorno, dopo aver letto una sua intervista dal titolo, forzato, “faremo le barricate”, Napolitano lo mandò a chiamare per sapere: “Ma mi spieghi che barricate vorresti fare?”. Guido Crosetto, oggi ministro della Difesa, rivela invece che durante il governo Monti “Napolitano mi chiese di fare il ministro. Lo ha scritto Sergio Soave, non io”. In suo onore, i “napolitani”, sui divanetti, per una mattina, si sono dunque fatti chiamare, e nuovamente, “riformisti forti”, ed erano fieri dell’aggettivo “migliorista” che è stato di Napolitano, Macaluso, Bufalini, il  gagliardetto, il loro brand, “ma che in verità – spiega Walter Verini – nasce da un saggio di Salvatore Veca”. Grazie a Napolitano, il Mago, come veniva chiamato Thomas Mann, lo scrittore tedesco che Napolitano leggeva e rileggeva, lo ha raccontato il cardinal Ravasi, anche lui oratore (i parlamentari: “Cardinale, bellissimo”, “Dovrebbe fare il Papa”) sembrava di stare a Botteghe Oscure. Perfino Veltroni era ben felice di non dover recitare, per una volta, la parte del “coccodrillologo” di professione. Non si sa dove, ma improvvisamente è sbucato, dal sotterraneo della Camera, il regista premio Oscar, Peppuccio Tornatore seguito da Jas Gawronski che si aiutava con un bastone. Gianfranco Fini, che resta il bastone della destra, vicino a Dario Franceschini dichiarava solo: “Forza Spal”. Sarebbero stati il figlio, la moglie Clio Napolitano, si dice addirittura Napolitano stesso, a redigere gli inviti di questa Camera incantata, la più bella degli ultimi vent’anni, perché è la sintesi di questi nostri anni complicati. Anna Finocchiaro celebrava il Napolitano che, durante Tangentopoli, impedì alla Gdf di entrare a Montecitorio, difendendo le prerogative del Parlamento. Giuliano Amato, altro oratore, ha scelto il conflitto finito di fronte alla Corte costituzionale che Napolitano aveva ingaggiato con i magistrati. Avevano registrato le sue conversazioni e Loris D’Ambrosio, suo consigliere, per il dolore ne morì. Vinse, alla fine, Napolitano. Gianni Letta, l’oratore avversario, ha chiamato a testimone Giuliano Ferrara per sferrare due ceffoni alla destra di carta che parla ancora di complotto perché, ed era sempre Letta,  “questo lutto repubblicano supera ogni divergenza e annulla le distinzioni culturali e politiche. Lui e Berlusconi si ritroveranno nella luce”.  Erano 630 illustri, chi può dire il vero numero, ma l’emiciclo pieno, non poteva mentire. Un giornalista che possedeva il binocolo dello scrittore Federico De Roberto li catalogava uno per uno. E’ stato il primo ad accorgersi che Fabrizio Roncone, la firma di colore del Corriere, da domani, non può più fare la firma di colore. Viene promosso. Era seduto, invitato, come un parlamentare, onorevole giornalista. A tratti sembrava di stare al festival della carta stampata e anche a Napolitano probabilmente sarebbe piaciuto vederli, tutti qui, litigare per un mozzicone di ricordi. L’ex direttore  Mario Calabresi si è tolto le cuffie e non registrava podcast. Matteo Renzi, che dirige pure il  Riformista, e che è arrivato a cerimonia in corso, è stato giustamente preso per i fondelli da Claudio Lotito. Il leader di Italia Viva portava al dito un anellone che pareva gli fosse stato regalato da Bin Salman. La palma del giornalista più arguto la vinceva senza dubbio Stefano Menichini. Stavano per presentarlo a Elly Schlein, come giornalista, ma a quel punto, è stato lui, Menichini, a dire: “In realtà sono stato il direttore di Elly. Ha scritto per me, articoli su Europa”. La segreteria del Pd aveva una di quelle bustine di pelle, porta oggetti, e se non era di Prada era di Furla. Accerchiata dai giornalisti, al suo portavoce diceva: “Mi stanno facendo domande, Flavio!”. E’ la sinistra balbuziente che Napolitano non amava come la sinistra ampollosa non amava Napolitano. Nel 1991, a Rimini, all’ultimo congresso del Pci, il suo intervento venne definito così: “Il più ascoltato da tutti e il meno applaudito di tutti”.
Carmelo Caruso
 

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  • Carmelo Caruso, giornalista a Palermo, Milano, Roma. Ha iniziato a La Repubblica. Oggi lavora al Foglio