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dopo il cdm

Cosa prevede il piano del governo sui Centri di espulsione per migranti

Francesco Bercic

Al centro della nuova stretta sull'immigrazione ci sono i Cpr: quelli in funzione sono meno di 10, i nuovi dovranno essere individuati "in località a bassissima densità abitativa", in ogni regione. Ma reallizarli in tempi brevi non sarà facile. "La norma da sola non potrà bastare ma sarà accompagna da un piano”, dice Piantedosi

La stretta decisa dal governo in materia di immigrazione nel Consiglio dei ministri di ieri ruota tutta attorno ai Centri di permanenza per i rimpatri (Cpr), le strutture dove i migranti irregolari presenti sul territorio italiano sono detenuti in attesa di tornare nei paesi di provenienza. “Porteremo una modifica del termine di trattenimento che verrà alzato al limite massimo consentito dalle attuali normative europee: sei mesi, prorogabili per ulteriori dodici, per un totale di diciotto mesi”, ha spiegato la premier.  Oltre all’innalzamento del tempo massimo di detenzione (che dovrà però essere motivato da “esigenze specifiche”), l’esecutivo ha poi ribadito l’intenzione di ampliare la rete degli attuali centri disponibili: “Daremo mandato al ministero della Difesa di realizzarli nel più breve tempo possibile”, ha affermato sempre ieri Giorgia Meloni, spiegando inoltre che i nuovi centri dovranno essere individuati "in località a bassissima densità abitativa e facilmente perimetrabili e sorvegliabili. Non si creerà ulteriore disagio e insicurezza nelle città italiane".

Un obiettivo certo non nuovo: da anni il vicepremier e capo della Lega Matteo Salvini ripete di volerne costruire “uno in ogni regione”. Il problema infatti – come d’altronde ha ammesso la stessa premier – è innanzitutto che “oggi, in Italia, i posti disponibili nei Cpr sono pochissimi”. Mentre il ministro dell'Interno Matteo Piantedosi ha sottolineato questa mattina che il provvedimento sui centri di espulsione "è contenuto all’interno di una cornice europea",  e che "la norma da sola non potrà bastare ma sarà accompagna da un piano”.


Attualmente le strutture attive sono nove, distribuite in sette regioni diverse: Bari, Brindisi, Caltanissetta, Gradisca d’Isonzo (provincia di Gorizia), Macomer (Nuoro), Milano, Palazzo San Gervasio (Potenza), Roma e Trapani. A livello di capienza, i centri offrono dai 50 ai 200 posti. La premier ha chiarito come i nuovi Cpr verranno adibiti “in zone scarsamente popolate e facilmente sorvegliabili”, in modo da evitare “ulteriore disagio e insicurezza nelle città”. Ma tener fede all’impegno significa dunque, per il governo, abilitare in tempi strettissimi un centro in oltre metà delle regioni italiane. Il che, ovviamente, presenta un costo non irrilevante: per quanto si vogliano sfruttare ex caserme ed altri edifici dismessi, dovrà pur sempre essere avviato un iter di riqualificazione, al quale si sommano le altre spese per il mantenimento (ora prorogato) e l’espulsione dei migranti. I limiti, chiaramente, non sono soltanto economici. La chiusura temporanea del Cpr di Torino, in seguito ad alcune rivolte avvenute al suo interno lo scorso febbraio, è una cartina di tornasole per capire le condizioni in cui realmente versano le strutture e i migranti accolti al loro interno. Soltanto nel mese di ottobre del 2022, proprio nella struttura di Torino 26 migranti hanno tentato il suicidio.

I Cpr sono da anni osservati speciali delle associazioni per i diritti umani, mancando spesso le tutele e le garanzie di un normale trattenimento penitenziario. Come ha spiegato al Foglio la Garante dei detenuti di Torino a marzo, in alcuni di questi centri è capitato che fossero radunate “persone di etnie diverse, di età diverse, alcuni di diciotto anni e altri di sessanta, con posizioni giuridiche diverse”, complicando così la convivenza e accentuando il rischio di tensioni. Ma soprattutto, poco cambierà aumentare la quantità delle strutture se prima non si stringono accordi con i paesi di provenienza, i quali la maggior parte delle volte si rifiutano di riconoscere i migranti irregolari come propri cittadini.

 

Nel 2020, soltanto il 13,2 per cento dei soggetti sottoposti in Italia ad espulsione è stato effettivamente rimpatriati. Se si guarda ai Cpr, il numero sale al 50 per cento (2232 su 4387 persone transitate nel 2020). Quest'anno invece, i rimpatriati alla fine di agosto erano 2.293 - mentre sono quasi 3300 nel 2022. Dati che, in rapporto al numero di migranti irregolari presenti sul territorio italiano, testimoniano una difficoltà oggettiva. E alimentanto un cortocircuito che rischia di minare anche il nuovo piano del governo. Alla scadenza del trattenimento, i migranti vengono infatti rilasciati con l’obbligo di abbandonare il paese entro una settimana. Ma sistematicamente questo non avviene, riportando i migranti alla struttura di partenza o direttamente perdendo le loro tracce.

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