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la versione di giorgia

Meloni spiega perché era ora di superare il Reddito di cittadinanza

“Caro Landini, noi vogliamo dare a tutti non il reddito ma la cittadinanza nel mercato del lavoro”. Il libro-intervista di Alessandro Sallusti alla premier

Pubblichiamo un estratto dal capitolo “L’Italia dei non garantiti” de “La versione di Giorgia”, il libro-intervista di Alessandro Sallusti a Giorgia Meloni edito da Rizzoli, in libreria da oggi.


 

"Usciamo dalla propaganda e vediamo le cose come stanno davvero. Se non sei abile al lavoro, se hai figli minori a carico, se hai oltre sessant’anni di età continui a percepire il reddito. Ma continuare a dare il reddito di cittadinanza a un ragazzo che può lavorare, significa rubargli tempo. Ragioniamo insieme. C’è un ragazzo di vent’anni senza lavoro. Invece di aiutarlo a trovare lavoro gli dai il reddito. Bene. Per quanto tempo puoi pagarglielo, atteso che pochissimi che hanno ottenuto il reddito di cittadinanza hanno trovato nel frattempo un posto di lavoro? Tre anni, quattro anni? Prima o poi glielo devi togliere, anche perché neanche i grillini hanno mai pensato al reddito come a un titolo vitalizio. Ora, quando dopo quattro anni togli il reddito a quel giovane, che intanto ha compiuto ventiquattro anni, è più ricco o più povero di prima? E’ più povero, perché si ritrova al punto di partenza ma intanto ha perso quattro anni. E se, invece, negli stessi quattro anni si fosse buttato in qualche modo nel mercato del lavoro, anche accettando un lavoro non in linea con le sue aspettative, sarebbe più ricco o più povero? Sarebbe più ricco, perché avrebbe con sé un bagaglio di esperienza maggiore, e avrebbe imparato un mestiere, probabilmente avrebbe fatto qualche passo in avanti sul piano economico, e chissà quali porte intanto si sarebbero potute aprire. Insomma, sarebbe sul mercato”.

Facile a dirsi, meno a farsi, magari qualcuno il lavoro davvero non lo trova. “Capisco l’obiezione. E infatti vogliamo rafforzare la possibilità di formazione per chi è in cerca di lavoro e non lo trova, perché anche il tempo dedicato a formarti ti rende più ricco che non essere mantenuto dallo Stato per qualche anno. Ma tornando al lavoro, forse ce ne potrebbe essere molto di più disponibile di quanto non ce ne sia attualmente. Mettiamola così, mi viene in mente la classica scena di molti film, americani e non solo, dove un forestiero entra in un bar e dice al barista: “C’è del lavoro per me?” e il titolare gli risponde: “Se hai i documenti in regola vai di là e lava i piatti”, e quello così si guadagna la giornata. È una semplificazione, certo, e nessuno pretende che il lavoro in Italia funzioni così; ma non si può neppure continuare a vivere l’opposto, e cioè che chi vuole lavorare e chi vuole assumere hanno difficoltà a farlo in modo legale. Diritto al lavoro vuol dire anche diritto all’occupabilità: vale a dire uno Stato che aiuta le forme legali di incontro tra domanda e offerta di lavoro, in tutte le sue forme, invece di ostacolarle favorendo così il lavoro nero e la bassa occupazione. È quello che è successo in Italia: siamo tra gli Stati europei con il più basso tasso di occupazione e il più alto tasso di lavoro irregolare. Sembra un paradosso per la nazione che per lungo tempo ha avuto il più forte partito comunista in Occidente, ma ne è con ogni probabilità la naturale conseguenza. Nel modello marxista dell’economia e del lavoro esistono solo grandi aziende, pubbliche o private poco importa, che danno un lavoro tradizionale a masse di lavoratori dipendenti. Chi si è formato con quell’immagine di società reputa che debba esistere solo il lavoro dipendente a tempo indeterminato. E pazienza se la realtà ci dice che le cose non stanno così. Loro preferiscono rimanere coerenti con i loro modelli ideologici e teorici che non affrontare la realtà delle cose. E’ così che abbiamo assistito gradualmente a un grande inganno. Un contesto protetto e fortemente sindacalizzato riservato a una parte dei lavoratori dipendenti, spacciato per la normalità del mondo del lavoro, ma che nascondeva uno scenario più vasto, fatto di altre forme di lavoro: quello autonomo, il piccolo commercio, ma anche il lavoro atipico, quello cooperativo, quello presso piccole attività, con un livello di tutele drasticamente inferiore. La priorità per l’Italia deve essere quella di inserire nel mercato del lavoro chi oggi ne è escluso e allargare le tutele esistenti a tutti i lavoratori, a prescindere dal tipo di lavoro che svolgono. Questo non vuol dire certo favorire il precariato, ma smetterla di nascondere la testa sotto la sabbia come è stato fatto finora. In uno degli incontri a Palazzo Chigi con i sindacati, il segretario della Ccgil Maurizio Landini, in modo molto accalorato e alzando la voce, si è messo a dire: “Bisogna farla finita con questo precariato del lavoro”. Il segretario della UIL Pierpaolo Bombardieri si è presentato al tavolo con una lavoratrice precaria da dieci anni per contestare le scelte del governo. E’ stato piuttosto facile far notare, con garbo, che se in Italia il precariato è costantemente aumentato e i salari diminuiti, la colpa non può certo essere imputata a chi è appena arrivato e che forse le responsabilità vanno cercate piuttosto in chi in questi anni ha imposto ricette sbagliate per il mercato del lavoro: “Bene, siamo d’accordo con i sindacati, finora le cose sono state gestite malissimo, è tempo di voltare pagina” ho replicato. Espressioni attonite al tavolo. 

E poi, il bello è che da quando si è insediato questo governo è costantemente aumentata l’occupazione e in particolare l’occupazione stabile e il lavoro femminile. L’Italia con noi ha toccato il suo record storico di numero di posti di lavoro a tempo indeterminato. Penso che in tutto questo abbiano inciso non solo le misure messe in campo dall’esecutivo, come il taglio del cuneo fiscale e gli incentivi a chi assume, ma anche un ritrovato clima di fiducia di imprese e lavoratori nei confronti dello Stato. Sì, il messaggio che abbiamo dato è stato: siamo dalla parte di chi vuole darsi da fare, di chi vuole fare impresa, di chi vuole intraprendere, di chi vuole mettersi in proprio e di chi vuole far valere il suo merito, la sua preparazione e la sua determinazione in un lavoro dipendente. E il messaggio è arrivato. Ne siamo fieri e per questo intendiamo proseguire su questa strada”.

Vi accuseranno di voler ridurre le tutele dei lavoratori. “È il contrario. Quello che vogliamo fare noi non è diminuire le tutele, ma renderle universali. Rompere la bolla che consente a pochi di vivere in un mondo protetto, mentre tanti, troppi, sono invece esclusi da ogni tutela. Il livello delle tutele deve essere il più alto possibile, ma deve essere uguale per tutti i lavoratori. Non è giusto un mondo nel quale se sei un lavoratore sindacalizzato sei di serie A, mentre se non lo sei ti ritrovi a essere un lavoratore di serie B. Un lavoratore è un lavoratore, indipendentemente dal contratto che ha o dalla mansione che svolge. In altre parole, noi vogliamo dare a tutti non il reddito di cittadinanza, ma la piena cittadinanza nel mercato del lavoro, perché se funziona allora arriva anche il reddito, e sarà guadagnato, non concesso, il che ha tutto un altro sapore”.

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