Jobs act e non solo. Il Pd è il partito che smentisce se stesso

Luciano Capone

Riforma del lavoro, salario minimo, Reddito di cittadinanza, decreto Dignità, spese militari. Il partito di Schlein ha ormai una costante: nel giro di uno o dieci anni, diventa contrario a ciò che ha fatto e favorevole a ciò che ha contrastato

C’è ormai una costante nella linea del Pd rispetto alla politica economica: è contrario a ciò che ha fatto ed è a favore di ciò che ha contrastato. Inevitabilmente. Può metterci uno o dieci anni, ma di sicuro il Pd in un certo arco di tempo arriva a sostenere, con la stessa convinzione, l’opposto di quello che sosteneva prima.

 

L’ultima frontiera è il Jobs act. La misura simbolo della stagione riformista del Pd di Matteo Renzi. Ebbene, Elly Schlein si è detta favorevole a sostenere un eventuale referendum abrogativo del Jobs act minacciato dalla Cgil di Maurizio Landini. “Stiamo chiedendo di cambiare le leggi precarizzanti fatte da tutti i governi. Se governo e Parlamento non intervengono siamo pronti nei prossimi mesi a prendere in considerazione un referendum per abrogare quelle leggi folli, compreso il Jobs act”, ha detto il segretario della Cgil al Quotidiano Nazionale. “Sono sempre stata contraria [al Jobs act] e per me si deve fare altro per diminuire la precarietà, i contratti a termine. Quindi seguiremo le iniziative della Cgil, perché condividiamo i problemi sulla precarizzazione del lavoro in Italia”, ha ribattuto la segretaria del Pd.

 

In effetti Schlein, che anche per questo era uscita dal Pd, mantiene una certa coerenza nel volere l’abolizione del Jobs act, sebbene non si capisca cosa voglia abrogare visto che sulla norma sono intervenute numerose nuove norme e sentenze della Corte costituzionale (vuole reintrodurre l’articolo 18? Intende abolire la Naspi, un’indennità di disoccupazione più estesa di quelle precedenti?). Il problema, semmai, dovrebbe essere per la quasi totalità della classe dirigente del Pd che ha prodotto, sostenuto e votato dal governo, dal Parlamento o dai vertici del partito la riforma del mercato del lavoro di Renzi. Questo in teoria. In pratica, invece, non è un grosso problema per nessuno. Perché i dirigenti del Pd sono perfettamente abituati a cambiare idea al cambiare del leader. Che sia Renzi, Zingaretti, Letta o Schlein. Come zattere alla deriva, vanno dove li porta la corrente prevalente.


Un caso emblematico è il Reddito di cittadinanza. Il Pd votò contro la misura approvata dal governo Conte I, quello guidato da Luigi Di Maio e Matteo Salvini, e criticò duramente il sussidio contro la povertà del M5s per tutti i difetti che poi si sono manifestati. Ma una volta approdato al governo con il M5s nel governo Conte II le cose sono cambiate: il Pd ha prima detto di voler riformare il Rdc, poi visto il niet di Giuseppe Conte ha imparato a farselo piacere così com’era anche quando Draghi provava a migliorarlo e, infine, ne è diventato uno strenuo difensore contro la riforma approvata dal governo Meloni.

 

Un altro esempio è la misura simbolo di questa “estate militante”: il salario minimo. Anche questa è una proposta che il M5s porta avanti da dieci anni e che il Pd, quando era al governo, prima da solo e poi con i grillini, ha impedito di introdurre per restare allineato alla Cgil allora contraria. Così come non l’ha portato avanti quando, con il governo Draghi, l’allora ministro del Lavoro Andrea Orlando fece una proposta di compromesso. Insomma, il Pd si è convinto della bontà del salario minimo in campagna elettorale e, soprattutto, dopo aver perso le elezioni passando all’opposizione: prima il salario minimo avrebbe fatto saltare la contrattazione collettiva, come sostiene adesso Giorgia Meloni, ora invece è l’unica salvezza per alzare i salari dei lavoratori poveri.

 

E il decreto Dignità? Il Pd si batté duramente contro la norma voluta dal ministro Luigi Di Maio, perché avrebbe irrigidito eccessivamente il mercato del lavoro producendo disoccupazione. Ora il Pd sale sulle barricate per difendere il decreto Dignità dalla “precarizzazione” introdotta dal decreto Lavoro del governo Meloni, che non fa altro che introdurre una proposta del Pd. La nuova normativa, infatti, è una via di mezzo tra la flessibilità del Jobs act del Pd, che consentiva rinnovi per tre anni senza causali, e la rigidità del decreto Dignità del M5s, che ha un sistema molto restrittivo delle causali per il rinnovo dopo il primo anno. Peraltro, la modifica del ministro del Lavoro Marina Calderone che rinvia alle causali previste dai contratti collettivi era  una proposta che il Pd aveva avanzato già nel 2018, a correzione del decreto Dignità.

 

Un’altra novità riguarda le spese militari. Elly Schlein, sostenuta da un pezzo forte della sua segreteria come Marco Furfaro, si è detta contraria a un aumento delle spese militari dicendo di seguire la linea del cancelliere Scholz. Ovviamente Scholz sta facendo il contrario: ha stanziato un fondo da 100 miliardi di euro e la Germania, già dal prossimo anno, aumenterà di almeno 20 miliardi le spese militari. In ogni caso, a prescindere da cosa farà Berlino, l’impegno ad aumentare le spese per la difesa è stato solennemente assunto a livello internazionale, nell’ambito della Nato, dal governo Conte appoggiato dal Pd. Ma non basta. Perché il ministro della Difesa era proprio un esponente del Pd, Lorenzo Guerini, che è riuscito per la prima volta a creare un fondo pluriennale per poter programmare gli investimenti nella difesa e che è stato autore di un piccolo capolavoro politico: a marzo 2022, con una soluzione di compromesso, il Parlamento alla quasi unanimità ha approvato un piano di graduale incremento delle spese militari che consentirà di raggiungere l’obiettivo Nato del 2% del pil nel 2028. Hanno votato a favore il M5s, FI, la Lega, ovviamente il Pd,  e persino FdI che era all’opposizione. Ma all’improvviso,  dopo appena un anno e non dieci come per altri casi, il Pd ha cambiato idea inventandosi una “svolta” che non esiste in Germania. E ora chiede a Meloni di non far rispettare all’Italia gli impegni internazionali sottoscritti dal Pd.    
 
  
La stranezza, quindi, non è tanto che Schlein segua il populista Giuseppe Conte anziché il socialdemocratico Olaf Scholz, ma che non segua la linea indicata dal Pd. O forse no. Non è affatto la stranezza di un partito che si pensava l’unico normale, ma la nuova normalità di un partito strano, che riesce a sostenere una cosa e poi il suo contrario. Sempre con la stessa convinzione. 

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali