Adolfo Urso (a sinistra) e Lucio Malan alla Camera (Ansa/Giuseppe Lami) 

editoriali

Sull'inflazione più Erdogan che Panetta

Redazione

Tassi d’interesse e aumento dei prezzi. Il mondo sottosopra di Meloni

Che quando parlano d’inflazione non gli faccia difetto “lo sprezzo del ridicolo”, per dirla con Flaiano, lo si era capito già un mese fa. “L’inflazione cala. Le misure varate dal governo Meloni danno i loro frutti”, esultavano i profili social di Fratelli d’Italia a metà luglio. Un po’ come quei matti convinti che davvero sia venuto giù il temporale perché loro hanno fatto la danza della pioggia. Ma era metà luglio, il solleone imperversava: magari era un colpo di sole. A inizio agosto, poi, fu Adolfo Urso, o meglio Urss, a rivendicare a sé il merito: “L’inflazione in Italia nell’ultimo mese scende dal 7,6 al 6,4 per cento. Un trend consolidato grazie all’effetto del costante monitoraggio dei prezzi effettuato dal Mimit”. E qui, va detto, l’alibi della calura cominciava già a essere meno solido. Ieri, poi, dopo il ministro taumaturgo che blocca l’inflazione con la semplice imposizione delle mani, è arrivato Lucio Malan, capogruppo patriota al Senato, a celebrare su Twitter il miracolo: “Il governo precedente ci ha lasciato l’inflazione all’11,8 per cento. Ora è al 5,9 per cento: dimezzata. E andiamo avanti”, con annessa foto di Giorgia Meloni. È lei, dunque, che ha spezzato le reni al rincaro dei prezzi. E certo qui ci sarebbe molto da ironizzare, o da disperarsi, sulla famigliarità del primo partito italiano coi fondamentali dell’economia. L’idea che le misure adottate da un singolo governo possano fermare, nel 2023, le dinamiche inflazionistiche di un paese che fa parte di un’unione monetaria fatta da altri 19 stati membri, è già abbastanza ridicola. Ma del resto, si tratta di un paese guidato da una premier che non si scompone nell’affermare che “l’aumento dei tassi d’interesse ha prodotto un aumento dei prezzi”. Secoli di dottrina economica confutati così, con un video su Facebook.

  
Ma forse l’insensatezza delle tesi meloniane riguardo all’inflazione si rivela in modo ancora più paradossale se quelle tesi le si prende sul serio. Al che bisognerebbe dire che, stando ai dati Eurostat, nel primo semestre del 2023, quando finalmente le misure stupefacenti del governo sovranista hanno potuto dispiegarsi, l’inflazione in Italia è scesa di 4 punti (dal 10,7 al 6,7 per cento). Dal che, applicando il teorema Malan-Urss, si evince che il governo Meloni è stato tre volte più scarso del governo Lettone, che ha ridotto l’inflazione nello stesso periodo del 13,3 per cento, e assai più inefficiente di quello lituano (-10,3) o di quello estone (-9,6 per cento), o di quello ungherese (-6,3) o di quello belga (-6,8), e bisognerebbe dunque chiedere conto a Meloni del fatto che ben 14 governi dell’Ue siano stati più bravi del suo a far scendere l’inflazione nel primo semestre del 2023. Presto: una relazione urgente al Parlamento. Dimissioni subito.

 
D’altro canto, a non volersi arrendere all’ipotesi che nessuno in FdI sappia di cosa accidenti stia parlando, si deve dedurre che la ragione della mistificazione della realtà operata da Malan e soci è più banale: se dovessero ammettere la verità, e cioè che l’inflazione scende ovunque nell’Ue (-3,6 per cento da gennaio a giugno) e anche nell’Eurozona (-3,1 per cento), allora riconoscerebbero la bontà delle misure adottate dalla Bce. Che però, e qui sta il busillis sovranista, sono le stesse contro cui l’intero governo si scaglia da mesi. Le stesse che secondo Meloni causerebbero il rincaro dei prezzi (e qui si spera che Fabio Panetta, il governatore designato della Banca d’Italia che giorni fa ha confermato la necessità di tenere i tassi alti a lungo proprio per rallentare l’inflazione, dia qualche ripetizione alla premier). Le stesse misure che insomma giustificherebbero, nel mondo alla rovescia di Palazzo Chigi, la tassa sugli extraprofitti bancari.

 
Altro che Orbán, dunque. Il modello di politica monetaria di Meloni sembra piuttosto quel Recep Erdogan che per anni ha impedito alla Banca centrale turca di alzare i tassi d’interesse, nel mentre che i prezzi, in quel caso sì, aumentavano vertiginosamente. La differenza è solo una: che Meloni non può, per quanto si sforzi, dettare alcuna scelta alla Bce. E meno male, viene da dire: perché in Turchia l’inflazione a fine 2022 è arrivata fino all’80 per cento. Poi però è scesa: a giugno, era al 40. Una roba per cui, chissà, un qualche Malan di Istanbul avrebbe fatto tweet entusiasti: “Inflazione ridotta del 40 per cento: siamo i migliori”.