La tassa sulle banche è la mossa della disperazione per la legge di Bilancio. Ma vale meno di 2 miliardi

Valerio Valentini

Giorgetti avverte i leghisti sulla Finanziaria: poco spazio per inventarsi grandi cose. Soltanto con le spese minime previste finora, si arriva a circa 20 miliardi, ma a disposizione finora ce ne sono 4 soltanto. E la decisione avventata sugli extraprofitti sta creando più problemi che risorse 

Giovanbattista Fazzolari ne fa, bontà sua, una questione di coraggio: “Solo noi ne abbiamo abbastanza per tassare le banche”, rivendica il sottosegretario a Palazzo Chigi. E chissà che non sia come diceva Diane de Poitiers, “che spesso il coraggio è il risultato della disperazione”. Così, almeno, veniva da pensare nel leggere il Financial Times di ieri, secondo cui l’imposta sugli extraprofitti proprio questo, sarebbe: “Una mossa della disperazione”. E un poco il dubbio che si trattasse di questo, di un’ansia mal gestita in vista dell’autunno che verrà, ce l’hanno avuto anche alcuni dei parlamentari della Lega che martedì sono stati convocati da Matteo Salvini a Palazzo Chigi per discutere dei temi economici. Perché tutti si aspettavano che la riunione si concentrasse sull’azzardo bancario annunciato poche ore prima dal loro segretario dopo il Cdm, e invece lui, Matteo Salvini, l’argomento lo ha relegato nelle “varie ed eventuali” dell’ordine del giorno, e ha dato la parola a Giancarlo Giorgetti “per capire come verrà impostato il lavoro verso la legge di Bilancio”. Quello, insomma, è lo spauracchio. E infatti il ministro dell’Economia ha ricordato un’amara verità: “Di spazio per grandi fantasie ce ne sarà ben poco”. Che poi è quello che la stessa Giorgia Meloni, la scorsa settimana, durante il pranzo coi capigruppo di maggioranza, s’era raccomandata: “Poche richieste, e che siano sostenibili”.

Se non fosse che pure quelle più misere, di pretese, rischiano di essere troppo esose. La stabilizzazione del taglio del cuneo fiscale, che pure per Antonio Tajani è “la base di partenza”, vale 9 miliardi e rischia da solo di scombinare i conti del Mef. A meno che Meloni non voglia dover ammettere che quello che lei a maggio aveva definito “il più importante taglio delle tasse sul lavoro degli ultimi decenni”, fosse in effetti un taglio che dura sei mesi. Ci sono poi circa 6 miliardi di spese indifferibili. E su tutto incombe la mannaia dell’inflazione sui contratti pubblici, la cui rivalutazione – secondo l’Istat – vale 32 miliardi: solo a limitarsi a una copertura del 10 per cento, fanno altri 3 miliardi. Se ne sono contati 18, dunque: e già così è una cifra enorme rispetto a 4 miliardi su cui nel Def il governo riteneva di potere avere a disposizione per la Finanziaria (sempre che la crescita stimata a marzo per il 2023, e cioè l’1 per cento, venga confermata).

E in ogni caso, nel computo minimo, già non c’è spazio per nessuna delle promesse sovraniste. Non per l’attuazione della delega fiscale a cui tanto tiene la premier: richiederebbe 4 miliardi solo per l’accorpamento delle prime due aliquote. Quanto all’ossessione leghista, quella delle pensioni, a dicembre scadono tutte le proroghe temporanee di Quota 103, Opzione donna e Ape social: di interventi strutturali non se ne parla, ma per inventarsi qualcosa che non sia il ritorno alla Fornero serviranno comunque almeno un paio di miliardi. E poi c’è la sanità, col ministro Orazio Schillaci che chiede “almeno 3 o 4 miliardi”. Insomma, si capisce perché, quando giorni fa il renziano Luigi Marattin scherzava coi colleghi leghisti congedandosi per le vacanze (“Ci rivediamo a settembre, quando la legislatura inizierà davvero”), quelli hanno condiviso con lui sospiri d’inquietudine. 

Gli stessi che Giorgetti ha dispensato ai suoi parlamentari, d’altronde, anche pensando all’incognita del Patto di stabilità che dovrà essere definito in autunno per poi entrare in vigore, sconsigliando dunque qualsiasi avventatezza, a inizio 2024. Con l’aggiunta del brivido prodotto dalla trovata fazzolariana sulle banche. Perfino metterci una pezza, per il Mef, è stato complicato: la nota con cui Via XX Settembre specificava i limiti di applicazione della tassa era stata inviata a Palazzo Chigi, non a caso, la mattina stessa di martedì. “Per evitare tensioni eccessive a Piazza Affari”, spiegano dal Tesoro. S’è dovuto attendere la sera tarda, e che la giornata di passione in Borsa si consumasse, perché dallo staff della premier arrivasse il via libera alla comunicazione. Il che dice dell’imbarazzo nell’ammettere di dover correggere una scelta appena annunciata, certo, ma anche della riluttanza con cui ci si è rassegnati a restringere il gettito previsto dalla misura, che ora è stimato in meno di 2 miliardi. Ben misera cosa, dunque, se paragonata agli effetti che potrà produrre (e che in parte sta già producendo, come avverte l’agenzia Moody’s) in termini di turbolenze sui mercati. Ed è qui che il “coraggio” di Fazzolari suggerisce una certa disperazione. Dissimulata, per ora, da Meloni e Salvini, che insistono nel condannare “i margini ingiusti”, “i profitti miliardari dei banchieri”. Del resto, come cantava Giovanni Lindo Ferretti, “anche la disperazione impone dei doveri”.

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  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.