Rai o non Rai

Facci oltre il caso Facci

Marianna Rizzini

Militante radicale, poi craxiano. Giovane cronista senza contratto all’“Avanti”, durante Mani Pulite, schifato (e schivato) dai dipietristi. La fissa delle case e dei dentifrici in tinta, e la volta in cui, entrando al Foglio per la prima volta, pareva in cerca di microspie. Ritratto del giornalista di Libero al centro delle polemiche per La Russa jr, la ragazza, lo stalking, la Rai

Quello che è successo è già accaduto, e comunque poi non è successo più niente. L’ha scritto di se stesso in un suo libro Filippo Facci, il giornalista di Libero in questi giorni finito nel vortice delle polemiche – da sinistra, da destra, via social, via carta stampata – per la frase infelice sul caso di Leonardo Apache La Russa, figlio diciannovenne del noto senatore Ignazio e principale accusato del presunto stupro ai danni di un’amica. Facci invece – inizialmente previsto nel palinsesto autunnale con una striscia quotidiana pre-tg su Rai2, ora appesa alla decisione finale dell’ad Rai Roberto Sergio, dopo un cda in cui è insorta, in chiave anti-Facci, tutta la componente femminile dello stesso – è accusato di sessismo per le parole spese sulla ragazza che accusa La Russa jr. (“…indubbiamente fatta di cocaina prima di essere fatta anche da Leonardo Apache”, ha scritto il giornalista). Alla frase, giudicata poi un errore e un “fallimento professionale” dallo stesso Facci, si è aggiunto – ulteriore miccia per l’onda montante di anti-faccismo – il resoconto a stralci, pubblicato come fosse un’intercettazione da alcuni organi di stampa, della querelle post-separazione tra Facci e la ex compagna, madre dei suoi due figli, querelle privata diventata iper-pubblica attraverso il passaparola internettiano, in particolare a proposito dell’ammonimento del questore per stalking, giunto a Facci sulla base delle dichiarazioni dell’ex partner. Il giornalista si è difeso sul Corriere della Sera, dicendo di aver per primo denunciato la ex partner, poi controdenunciante. Ma questa è un’altra storia. 


Chi è Facci, al di là di quello che decideranno la Rai e una causa privata? E’ forse questa, intanto, la storia che fatica a farsi strada nel polverone sollevato, con quella frase, dallo stesso Facci, mentre c’è chi si domanda come sia possibile che un giornalista con esperienza più che trentennale, e curriculum corposo di cronista giudiziario, autore di varie contro-inchieste sui metodi usati negli anni di “Mani Pulite” da Antonio Di Pietro e da pool di Milano, sapendo di dover andare in Rai, non si sia fermato nel rileggere parole dal sen fuggite (“non sono razzista, non sono fascista, non sono sessista e non sono un vittimizzatore”, ha detto poi Facci al Corriere, ma era tardi, ché le parole incriminate vivevano già di vita propria sui social e nelle conversazioni estive a bordo bar). 


Quello che è successo è già accaduto, e comunque poi non è successo più niente. E’ un concetto che ricorre in “La guerra dei trent’anni - 1992-2022, le inchieste, la rivoluzione passata e il passato che non passa” (ed. Marsilio), il libro in cui Facci racconta dall’interno la sua lunga e rocambolesca contro-inchiesta su Mani Pulite, con tanto di dossier-fantasma che finisce anonimo sui giornali e con strani personaggi che appaiono dall’estero sulla scena. Il punto di vista è quello di un ex ragazzo che si trova quasi per caso alle prese con un caso dentro il caso. Era il 1992 e Facci, già giovane militante radicale, poi craxiano, sposato a ventitrè anni con una donna che aveva contatti professionali con lo studio avvocatizio di La Russa padre (nemesi? beffarda coincidenza?), nonché cronista alle prime armi in cerca di un contratto, si ritrova all’“Avanti”, quotidiano socialista. Ma nella sede negletta, quella lombarda, invisa ai romani per via di alcune beghe interne al Psi, e proprio nel momento in cui scrivere “per il giornale dei ladri” non era un buon biglietto da visita per farsi aiutare dal cosiddetto pool che seguiva il pool, quello dei cronisti di giudiziaria rispettati e letti sui grandi quotidiani, giornalisti che avevano agganci con i magistrati e con alcuni avvocati. Cronisti che (a parte un paio, mossi a compassione per il collega alle prime armi), magari cambiavano marciapiede, scrive Facci, quando lui compariva davanti al Palazzo di Giustizia con il taccuino (gliene importava ma in fondo anche no, a Facci, di quella conventio ad excludendum antisocialista, ma anche questa è un’altra storia). 


Ed era già successo quello che è successo oggi, forse, qualche anno dopo Tangentopoli, quando Facci – nel frattempo l’autore di un libro-intervista con l’ex sindaco socialista di Milano Paolo Pillitteri e di una serie di inchieste su varie testate, dopo la chiusura dell’“Avanti”, la separazione dalla moglie e l’estate in cui, privo di lavoro e casa, ci dormiva, nella sede del giornale non più in edicola – aveva affrontato l’esame di idoneità professionale all’Ordine dei giornalisti, davanti a una commissione di magistrati e giornalisti, con una tesina sullo scambio di informazioni e gli stretti rapporti tra giudici e stampa durante gli anni di Mani Pulite. Provocazione? Scelta incauta? Fu promosso, Facci, ma per il rotto della cuffia, grazie all’alto voto preso allo scritto e a un unico commissario, dopo un’ora di dibattito e varie domande trabocchetto da parte del piccato magistrato esaminatore. Perché ti sei presentato con quella tesina? gli aveva chiesto un amico, commentando poi con un altro amico: ma Facci è pazzo? “Perché sono così”, aveva risposto Facci. Che poi è la stessa frase usata oggi, con il Corriere della Sera, alla domanda “mai un pentimento?”: “Mai. Sono così”. Succede quindi, chissà, quello che è già successo. 


Era già successo tutto anche nei primi anni Duemila, quando alcuni degli allora stagisti e ora redattori in questo giornale, a quei tempi spediti nella sede di Milano in Largo Corsia de’ Servi, erano stati scherzosamente avvisati dai giovani e già affermati colleghi Christian Rocca, Mattia Feltri e Daniele Bellasio: non vi spaventate, eh, a pranzo viene un nostro amico, bravissimo giornalista ma un po’ eccentrico, si chiama Filippo Facci. L’eccentrico non si era subito rivelato tale, e anzi era parso, a un primo sguardo, molto taciturno, a differenza dell’altro amico dei colleghi e habitué dei pranzi in San Babila (Giuseppe Cruciani, futuro conduttore radiofonico de “La Zanzara”). I due, Facci e Cruciani, apparivano perfettamente opposti: uno biondo, l’altro moro, uno romano, l’altro monzese, uno in sneakers, l’altro con scarpe di alta qualità artigianale, uno seduto al primo computer libero con aria concentrata, l’altro al telefono con un amico o parente per un racconto lampo del recente viaggio a Formentera. Eccentrico forse non era la parola giusta, per Facci. Non-incasellabile? Estemporaneo? Parlavano per lui, intanto, le sue case. Si favoleggiava di quella con drappi rossi, vagamente dannunziana, teatro di mitiche polentate dove una volta, racconta oggi Mattia Feltri, prese fuoco non si sa come una tenda. Ma anche di quella con arredamento talmente algido da ricordare un set di Stanley Kubrick: bianco, chirurgico, pochi mobili. Come testimoni oculari, i suddetti stagisti videro invece la casa-giardino con una sorta di albero in salotto, di cui si narrava la complicatissima discesa con gru al momento dell’impianto, e ci fu anche chi vide la casa di cui Facci stesso racconta oggi la sciagurata fine: loft con piscina sul tetto, passo più lungo della gamba, fisco alle costole, contestuale calo di richieste da parte delle riviste che affittavano quelle stanze per servizi strapagati, vendita sottocosto, stop della second life da arredatore per passione, più che per fissazione. Presente in ogni caso, la fissazione, sugli accessori attentamente studiati. Poteva infatti accadere che Facci entrasse al Foglio – giornale dove anche collaborava, e dove a un certo punto, grazie a uno scoop antidipietrista, aveva fatto letteralmente saltare dalla gioia il co-direttore Vichi Festa e gongolare con forza il direttore emerito Giuliano Ferrara – rovesciando sulla prima scrivania utile valanghe di saponette di diverse gradazioni di beige, pare in tinta con gli asciugamani, e varie scatole di mini-dentifrici Marvis di qualsiasi colore disponibile sul mercato. A che ti servono? aveva incautamente chiesto una stagista soprannominata “Loredana” pare per via di un tratto somatico che a Facci faceva venire in mente “una tipica faccia da Loredana”. Risultato: nessuna risposta, e nuova schiera di dentifrici Marvis il giorno successivo. La fissazione, d’altronde, poteva emergere anche sull’arredamento delle altrui dimore. Ci fu infatti chi si ritrovò a dover staccare dal muro i pasticcini mignon che Facci, in preda a un impeto di perfezionismo misto a fastidio per la sciatteria, aveva appeso a chiodi lasciati senza quadri nella casa di un’amica, durante una festa di compleanno, con l’intento di abbellire il muro scarno grazie a quella estemporanea installazione artistico-culinaria. Come era già successo tutto quando Facci si presentava in campo per la partita di calcetto e cominciava a correre senza fermarsi, e con quella corsa matta e disperatissima andava avan fino al fischio finale, cosa che lo fotografa più di una fotografia, dice oggi Feltri, che ha ricordato in un suo “Buongiorno”, sulla Stampa, la volta in cui Facci aveva soddisfatto il desiderio infantile di Feltri di poter colpire con una palla un birillo umano, ed era successo che Feltri aveva davvero tirato la palla e Facci si era davvero buttato per terra, lungo disteso come un bersaglio da bowling. 


C’era già stata la storia e la controstoria, in quei primi anni Duemila: Mani Pulite, il successo di Facci come giornalista non allineato ai cronisti pro pool, l’amicizia con Craxi, gli anatemi per la medesima, le monetine al Raphael viste dal vivo con l’amico Luca Josi, la morte dell’ex premier ad Hammamet, un rapido cambio di testate e direttori, da Maurizio Belpietro a Feltri padre, per il Facci che scriveva di giustizia ma anche di musica, wagneriano con ascendenze trentine, figlio di un papà ingegnere e di una mamma mancata presto, quando il futuro giornalista era ancora bambino, circostanza che Facci ha ricordato in “La guerra dei trent’anni”, libro in cui, alla cronaca dei giorni terribili del ‘92-’93, quelli dei suicidi, del carcere preventivo pro-confessione e dei politici ammanettati sotto i riflettori, si sovrappone la storia privata di un ragazzo che per anni ha guidato senza patente (e un giorno, chissà se con patente o meno, racconta Cruciani, Facci e Cruciani arrivarono in decappottabile, spettinatissimi, dopo il viaggio open-air da Milano, al Festival internazionale del giornalismo di Perugia, non si sa se sbalordire il borghese o per farsi da soli quattro risate). 


In quel libro c’è il Facci pubblico, quello che per anni ha raccolto prove sui “presunti colpevoli”, casi di malagiustizia finiti in un omonimo volume anche grazie alla cocciutaggine da ex radicale che a diciotto anni raccoglieva firme a un banchetto e a quaranta è stato chiamato da Pannella, a Ferragosto, per sostituire per una domenica l’allora direttore di Radio Radicale Massimo Bordin nella conversazione a due in cui Pannella poteva prodursi in ore di ragionamenti e Bordin in ore di tosse scettica. Quella volta Facci scese da un barchino a Ponza per attraversare una Roma deserta e accettare la sfida lisergica a colpi di infinite frasi subordinate. Ma nel libro c’è anche il Facci privato, ugualmente radicale, specie nel racconto per sottrazione della morte del padre. Poche frasi in cui si intuisce il contorno del rapporto genitore-figlio, al di là “di ogni celebre caso di nutrizione interrotta” o di “contestato distacco di respiratore”. Poche frasi in cui dal padre al figlio si indovina il passaggio di qualche tratto caratteriale o di qualche pensiero, attitudine, idea: “Gran relativista”, scrive Facci del padre: “Una volta stavamo guardando un film e disse che tra i partigiani di qualsiasi nazione si nascondevano sempre i più grandi eroi e i peggiori assassini. Un’altra volta – ed ero già abbastanza anziano – lo stavo portando in montagna e lui dal niente mi rivelò che, verso la fine della Seconda guerra mondiale, era scappato in lungo e in largo per il Settentrione con una Fiat Balilla perché sia i nazisti sia i partigiani l’avevano condannato a morte…”. Se sia o meno relativista il Facci figlio non se lo domandano né quelli che, da sinistra, vogliono ora vederlo fuori dal servizio pubblico sia quelli che, da destra, oggi, ma non a monte della scelta del suo nome per la striscia su Rai2, hanno scoperto improvvisamente che Facci ha anche scritto frasi scomode in generale e per la parte politica ora al governo (sull’Islam? Su Eugenia Roccella? Sulle donne? Sugli uomini?). Gli amici di ieri e di oggi, intanto, di fronte al caso Facci, si interrogano su un punto: poteva mai comportarsi diversamente, il Facci che ora dice “io sono così” e che ieri, racconta Rocca, entrando per la prima volta al Foglio, venticinquenne cronista giudiziario, convocato dal direttore ma ricevuto da Rocca e Feltri, aveva allarmato entrambi a forza di guardare dietro alle poltrone in pelle della redazione di via Victor Hugo? Che cosa starà cercando, una microspia? si erano chiesti i due, vista la fama antidipietrista di Facci. E però poi si era scoperto che Facci, in un attacco aspirazionale di sincretismo d’interni (stile set di Kubrick più stile salotto borghese?) stava cercando semplicemente la marca della poltrona, per poterne magari acquistarne una simile. E chissà se si sarebbe potuto comportare diversamente, oggi, il Facci che ieri si divertiva a lanciare la sfida degli incipit – iniziamo tutti gli articoli, domani, su diversi giornali, con espressioni desuete tipo “imperciocché” – ma anche a fare scherzi di humour anglosassone feroce, come quando si sostituì a Bellasio, allora capo degli Esteri, al computer del medesimo, per inviare dalla mail di Bellasio messaggi di chiusura a fidanzate, amici e, peggio, ai collaboratori del Foglio, spiegando con prosa fredda al commentatore atlantista che i suoi articoli erano diventati troppo atlantisti, e che quindi si sarebbe potuto fare a meno della sua collaborazione, anche perché sinceramente ormai era diventata troppo cara, e all’esperto di Medio Oriente che la linea del giornale era cambiata, ragion per cui si sarebbe potuto scegliere un collaboratore più filopalestinese (Bellasio aveva trascorso il successivo pomeriggio a cercare di placare i destinatari delle mail, perplessi e inferociti). 


Poi c’è la foto che circola in questi giorni. Quella in cui Facci appare corrucciato e intento a tormentare una ciocca di capelli, e un collega giura che è “lo stesso tic che aveva quando, a un certo punto, lanciatosi nell’hobby delle arrampicate in montagna, si sedeva mezz’ora prima di partire a riflettere su non si sa che cosa, giocando appunto con i capelli, zitto, cosa che faceva sempre, peraltro, prima di mettersi a scrivere”. E quel Facci che giocava a calcio come fosse da solo in campo, ora dipinto sui giornali come solitario mostro di palinsesto, aveva provato subito simpatia, agli albori di Tangentopoli, per l’ex sindaco di Milano, il socialista Paolo Pillitteri. “C’era Pillitteri immerso in una solitudine impressionante e quasi violenta, lui che sino a poco tempo prima era stato il celebratissimo sindaco di Milano”, ha scritto Facci in “La guerra dei trent’anni”. “L’inquadratura sembrava quella della sala da ballo di ‘Shining’, immaginando che ectoplasmi evanescenti e scontornati lentamente stagliassero profili di infiniti questuanti, millantatori, cortigiani, postulanti, pennivendoli, industrialotti e berluschini che poi si dissolvevano”. Era la prima volta che il giornalista incontrava l’ex sindaco, poi ispiratore della contro-inchiesta che farà di Facci una firma dell’antidipietrismo. Non parlarono subito di Mani Pulite, però. Per vezzo, noia, passione, pizzico di follia o tutte queste cose insieme si partì da altro. La seconda inquadratura vede infatti Pillitteri e Facci lì, nella simil-sala da ballo di Shining, intenti a parlare di un film di Tarkovskij. La terza inquadratura è quella di questi giorni. Sono passati trent’anni, Facci è di nuovo in tribunale, mediatico, non da cronista ma da imputato. E la parola non andrà alla giuria, ma a un consiglio di amministrazione Rai, con eco e coro su Twitter, Facebook, Instagram e Whatsapp.

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  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.