Le paranoie di Meloni sui magistrati mettono in subbuglio la maggioranza

Valerio Valentini

L'intemerata contro le toghe studiata a Palazzo Chigi. Doveva ricompattare il governo, invece lo ha mandato in tilt. Salvini fa lo gnorri. Forza Italia in rivolta: "Pensiamo piuttosto alle cose da fare, non ai diversivi", dice Cattaneo. E La Russa innesca un rodeo dentro FdI, tra rinfacci e rivendicazioni: "Se smette di straparlare, per noi è una Liberazione"

La coincidenza apparentemente nefasta, lui la vede invece provvidenziale. “La mia imputazione coatta proprio a ridosso del caso Santanchè, dimostra che un teorema esiste. Accusano me di aver rivelato un segreto, quando qui l’unico segreto violato è quello dell’indagine a carico di Daniela spifferato ai giornali”. Insomma Andrea Delmastro non ha dubbi: l’accerchiamento esiste. La tesi dell’assedio delle procure del resto non nasce a caso. Anche perché a Palazzo Chigi, cioè nel luogo dove la teoria del complotto ha preso sostanza, durante  una riunione del sancta sanctorum patriottico convocata da Giorgia Meloni giovedì pomeriggio, a suggerire l’apertura delle ostilità contro i pm non c’erano solo i due fattacci noti, quello della ministra del Turismo e del sottosegretario alla Giustizia. Era già arrivata la notizia che a breve sarebbe deflagrato il terzo caso, forse il più fangoso, e cioè quello del figlio di Ignazio La Russa, e dunque non era male trovare un diversivo, la fumisteria: insomma provare a disinnescare preventivamente il clamore inevitabile che la denuncia verso Leonardo Apache avrebbe provocato. Non tanto, dunque, un cedimento dei nervi alla tensione di giornata. Semmai la voglia di disvelare una trama che s’intravede – che si è convinti di intravedere – per detonarla prima che esploda. “Se credono di replicare con me quel che hanno già fatto con altri, si sbagliano di grosso”, s’è sfogata la premier. Ce l’aveva con non meglio precisati registi di manovre politico-giudiziarie. Il timore delle toghe, dunque, come estrema forma del cospirazionismo vittimistico tipico della destra sovranista? I giudici, oggi, dopo che ieri erano “i boiardi del deep state” da falciare col machete, e ieri l’altro “i burocrati di Bruxelles”?

Chiara Gribaudo ne è convinta: “Il vagheggiare complotti da parte dei magistrati, oltre che irrispettoso è anche patetico: è l’estremo rifugio di chi è in affanno sull’agenda di governo e cerca alibi”. E certo nelle parole della vicepresidente del Pd ci sarà la malizia di chi piccona dall’opposizione, ma qualche verità quella malizia deve coglierla, se riflette i dubbi anche degli alleati della stessa Meloni.

Matteo Salvini, alle prese anche ieri con gli strascichi del processo Open Arms a Palermo, si guarda bene dal commentare, figurarsi dall’esprimere solidarietà. Pensa all’adunata di Pontida, convocata per il 17 settembre, e alla festa leghista di Cervia, a fine luglio. “Piuttosto: davvero conviene pestare la coda al cane che dorme?”, sbuffano nel Carroccio, temendo che l’apertura unilaterale delle ostilità verso le toghe sia foriera di eventuali ritorsioni. Figurarsi allora qual è il clima in Forza Italia, dove ancora se li ricordano gli sfoghi con cui il Cav., nei giorni della formazione del governo, raccontava del trattamento ricevuto da Meloni, quel suo impuntarsi, in romanesco verace, sul fatto che l’assegnare Via Arenula a un esponente azzurro avrebbe riaperto la stagione dei dissidi coi pm: “Ah Sirvio, se ’o metti te er ministro daa Giustizia nun la famo più ’sta riforma. Te dicono che te voi fa’ i fatti tua”. Ci ridono ancora, ma è un riso amaro, i deputati forzisti, alla buvette di Montecitorio. “La verità è che le riforme non si fanno sulla spinta di accidenti di cronaca, ma perché le abbiamo promesse agli elettori e le dobbiamo al paese”, ragiona Pietro Pittalis, dando voce a un dubbio diffuso in verità anche dentro FdI: e cioè che il brandire l’ipotesi della separazione delle carriere come una ritorsione verso i magistrati non sia il miglior viatico per arrivare alla meta. E per questo Alessandro Cattaneo lancia un avvertimento: “Credo che l’agenda del governo sia molto densa: continuiamo a concentrarci sulle cose da fare. Riaprire anacronistiche guerre con la magistratura rischia di essere un diversivo poco utile”.

Se insomma l’intemerata contro le toghe di Palazzo Chigi, oltre a riflettere una paranoia reale della premier, doveva essere una mossa per ricompattare una maggioranza un po’ sfibrata, l’effetto sortito sembra opposto. L’avventatezza meloniana ha semmai rivelato l’esistenza di una carie, di un tarlo che rode la destra dal suo interno. E così c’è chi, a Via della Scrofa, si chiede se la delega ai Servizi non fosse stata attribuita anche per questo, ad Alfredo Mantovano, per la sua profonda conoscenza delle dinamiche più perverse delle procure. E non basta.  Perché il destino periclitante di Santanchè, che pure la capa di FdI considera intoccabile (“Non si cambia un ministro perché ce lo chiedono De Benedetti ed Elkann”, intignano i collaboratori di Donna Giorgia), alimenta comunque voci di rimpasto, e dunque quelle inevitabili convulsioni fatte dalle ambizioni di chi potrebbe sostituire la ministra del Turismo, e dalle paure di chi teme che potrebbe precipitare  pure lui nella ridefinizione degli assetti di governo.

La Russa, poi, è un caso a parte. Ma forse il più grave. E non solo per gli eventuali sviluppi dell’accusa di stupro mossa a suo figlio Lorenzo Apache da una ragazza di 22 anni, ma per la consueta incontinenza verbale con cui il presidente del Senato s’è affrettato  a commentare la faccenda. “Lascia oggettivamente molti dubbi il racconto di una ragazza che, per sua stessa ammissione, aveva consumato cocaina prima di incontrare mio figlio. (…) Di sicuro lascia molti interrogativi una denuncia presentata dopo quaranta giorni”, ha scritto, tra l’altro, La Russa, in una nota diramata ieri. Guadagnandosi le accuse di Elly Schlein. E ci sta. Ma pure i mugugni di chi, in FdI, ricorda che fu proprio Meloni, due anni fa, ascoltando il vaniloquio di Beppe Grillo a difesa di suo figlio, coinvolto in un caso apparentemente analogo, a dirsi sorpresa: “Mi ha colpito il modo in cui Grillo ha minimizzato  un tema pesante, come quello  della presunta violenza sessuale”. E insomma è inevitabile che in queste ore le dichiarazioni imbarazzanti di La Russa vengano rimesse in fila dai suoi avversari interni (ministri compresi) che, non a caso, gli rinfacciano anche l’aver voluto a ogni costo promuovere Santanchè nell’esecutivo: e quindi l’incidente diplomatico con Sergio Mattarella durante il caso Ocean Viking, e quindi le raggelanti dissertazioni storiche su Via Rasella e quel che ne seguì. Qualcuno, in FdI, ricordando  il 25 aprile, azzarda perfino una battuta: “Se Ignazio facesse il presidente del Senato come tutti prima di lui, se smettesse di dichiarare a ogni pie’ sospinto, per Giorgia sarebbe una Liberazione”.

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  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.