(foto LaPresse)

Il dialogo

La debolezza dei partiti. Sempre più esili ma decisivi per la vita pubblica

Sabino Cassese

Evanescenti e con sempre meno iscritti, eppure sono i pilastri che reggono il rapporto tra società e stato. Uno scambio di battute fra un Accolito e un Acchiappavoti sulla crisi di consenso politico e le possibili soluzioni da adottare

Sono esili, evanescenti, oscillanti, con un sèguito sempre più ristretto. Sono i partiti politici. Eppure sono i pilastri che reggono il rapporto tra società e stato. La caratteristica del governo rappresentativo è di rivelare senza sosta la società al proprio governo e a se stessa, e il governo a se stesso e alla società, ha scritto, nella prima metà dell’Ottocento, il grande storico e politico François Guizot (la citazione è in P. Rosanvallon, “Le moment Guizot”, Paris, Gallimard, 1985, p. 55). E come potrebbe rivelarsi la società al proprio governo se non attraverso i partiti? Ascoltiamo un dialogo ambizioso ma schietto su questo argomento tra un Accolito, il fidato sostenitore di un partito politico, e un Acchiappavoti, bravo nel raccogliere suffragi. Un dialogo forse nostalgico, ma realistico, che passa in rassegna tutti i punti deboli dei partiti odierni.

 

Accolito. Fino all’altro ieri, si lamentava la partitocrazia: molti iscritti, forte peso politico, i partiti prendevano le decisioni e il governo eseguiva. L’indagine classica è quella di Giuseppe Maranini,“Storia del potere in Italia. 1848-1967”, Firenze, Vallecchi, II edizione, 1968. Che lamentava l’iperpartitocrazia, notando che il potere era tutto concentrato nei partiti. Ora, invece, i partiti si fanno soffiare sotto il naso anche i propri segretari. Ma è possibile che un partito, i cui iscritti hanno scelto un segretario, deleghi a soggetti esterni al partito il compito di scegliere il segretario, in opposizione a quello prescelto dagli iscritti? A che serve iscriversi a un partito, se quest’ultimo rinuncia anche alla scelta dei propri vertici? Chi ricorda l’ultimo congresso di un partito? Perché accettiamo il paradosso per cui lo strumento della democrazia, il partito politico, può essere, a sua volta non democratico? E’ possibile l’esistenza di un regime di partiti senza partiti?

Acchiappavoti. Piano, piano. I partiti non sono morti. Ce ne sono 23 in Parlamento, con i loro rappresentanti e di questi sette sono i più importanti. Nel paese, se si escludono quelli regionali, sono poco più di 80. Poi vi sono i partiti che hanno una dimensione esclusivamente locale. Quindi, in termini di numeri, si potrebbe anche dire che sono troppi.

Accolito. Al loro numero risponde, però, la loro debolezza. Consideriamo, innanzitutto, le loro dimensioni. Il numero totale degli iscritti ai partiti oggi non supera il 2 per cento della popolazione italiana, mentre era l’8 per cento della popolazione nella prima parte della storia repubblicana. Poi, i partiti di oggi si sono verticalizzati o, meglio, sono poco più di un vertice. Una volta i maggiori partiti avevano decine di migliaia di sezioni locali, che oggi non esistono più. L’organizzazione complessiva dei partiti è di dimensioni molto ristrette. Poi, le tradizionali funzioni dei partiti, quella di organizzare il consenso alla base, di selezionare il personale politico, di formarlo, di ordinare una carriera interna, di far maturare un’offerta politica all’interno del partito, tutto questo è scomparso. Resta la funzione di raccogliere il consenso e quella di scegliere i candidati e di assegnarli ai singoli collegi, decidendo così la loro sorte mediante l’assegnazione, cioè dando collegi sicuri a chi si vuole che venga eletto. Rimane ancora la proiezione parlamentare dei partiti politici, la formazione dei gruppi parlamentari. Ma anche questa è un’organizzazione scritta sull’acqua, se si considera il numero di passaggi da un gruppo parlamentare all’altro o la circostanza che quasi il 20 per cento dei parlamentari del Movimento 5 stelle nella passata legislatura è stato espulso dal gruppo.

Acchiappavoti. Quella di scegliere i candidati è però una funzione importante. La scelta è rimessa ai segretari dei partiti e ai loro più stretti collaboratori. Questa scelta crea un rapporto fondamentale tra il segretario e l’eletto; quest’ultimo sa che la sua nomina dipende in sostanza dal segretario, salvo ratifica popolare, e che deve quindi rigare dritto, perché alla prossima elezione potrebbe non essere riproposto per un posto sicuro. Dunque, questo è l’“osso duro” del partito, questo rapporto che si viene a creare tra segretario e rappresentante parlamentare. Questo rapporto è rafforzato dai modi di azione e di comunicazione, che sono affidati per lo più ai segretari dei partiti, che quindi sono la cerniera tra l’elettorato e gli eletti. Tutto il resto non conta. Basta visitare i siti web dei partiti, che sono per il 70 per cento mera propaganda e per la parte restante il vuoto assoluto.

Accolito. Questo conferma la mia diagnosi sulla debolezza dei partiti.

Acchiappavoti. Va anche considerata la loro organizzazione: presidente, segretario, segreteria, direzione, assemblea o congresso, commissione di garanzia, e poi i gruppi parlamentari con il capogruppo, nonché i responsabili dei partiti nelle singole commissioni parlamentari. Poi, il partito non è composto soltanto dall’organizzazione interna. Vi sono le organizzazioni laterali, come quella giovanile, presente quasi in ogni partito, le fondazioni, le “think tanks”. Alcuni partiti hanno anche sedi territoriali nei capoluoghi di provincia.

Accolito. Questa struttura organizzativa è spesso una mera facciata, la realtà è misurata dal personale e dalla finanza. Quanto al personale, i dipendenti dei partiti, di cui non si conosce il numero preciso, sono complessivamente poche centinaia di persone e per molti di questi vengono utilizzati i gruppi parlamentari. Quanto al finanziamento, nel 2012 è stato limitato. Oggi deriva dai gruppi parlamentari, dalle donazioni private e dalla quota del 2 per mille dell’Irpef. Quest’ultima fonte fornisce un totale di poco più di 20 milioni per anno. Il Partito democratico incassa 7,3 milioni da parte di poco meno di 500 mila contribuenti e presenta un conto economico con 10 milioni di proventi. Fratelli d’Italia incassa 3,1 milioni. Sia la Lega, sia Azione 1,2 milioni.

Accolito. In larga misura questa situazione è determinata dallo stato. Questo si è astenuto, ha lasciato fare. L’articolo 49 della Costituzione, nonostante le molte proposte, non prevede una disciplina legislativa dei partiti. Nel dopoguerra vi sono state molte iniziative parlamentari e extraparlamentari, ma senza successo. I partiti sono definiti dalla Costituzione come associazioni, ma presentano ben poche caratteristiche sostanziali di associazioni. Rispettano la Costituzione soltanto perché competono. Sono poi regolati dai regolamenti parlamentari i gruppi parlamentari. Per il resto, vivono interamente nel diritto privato, come dimostrato dalla ricca giurisprudenza sui partiti politici.

Acchiappavoti. A mio modo di vedere, il maggiore paradosso della democrazia rappresentativa italiana è quello messo in luce da una rilettura del famoso discorso di Edmund Burke ai suoi elettori di Bristol, nel 1774: il parlamento non è un’assemblea di ambasciatori; i parlamentari non sono rappresentanti nel significato di diritto privato della parola.  Stante l’attuale situazione, il divieto di mandato imperativo non serve per fare esprimere liberamente la loro opinione, ma per consentire ai segretari di decidere e imporre la propria decisione ai parlamentari. Questo rafforza il carattere oligarchico del sistema.

Accolito. C’è un ultimo aspetto che rende ancor più grave la situazione. I partiti, come strumento essenziale della democrazia, non hanno altri concorrenti, hanno un monopolio della funzione, anche se questo monopolio è spartito tra più partiti, oggi sette, e quindi è un oligopolio.

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