Meloni punta al centro? E Salvini torna a cercare spazi a destra

Valerio Valentini

La premier è troppo avvantaggiata nella rincorsa per raccogliere l'eredità del Cav., e il capo leghista è convinto che la svolta possa nuocere alla capa di FdI. Per questo resta alla finestra e si preparara a logorarla. Il tema delle alleanze europee. Quei colloquio tra Salvini e Berlusconi su Putin e la guerra

La scommessa ora è sulla stasi. Il che, per un ipercinetico come Matteo Salvini, dev’essere un esercizio spirituale mica male. E però, todo modo per ritrovare il consenso. Dunque: “Stare fermi”. Questo è quello che raccomanda il capo ai suoi colonnelli che lo interrogano sul da farsi. Stare fermi sperando che, nel generale scomporsi e ricomporsi degli equilibri, nel marasma che il trapasso del Cav. potrà innescare, questo immobilismo conduca la Lega, per una specie di moto relativo, a trovare nuovi spazi. Qualcuno, a Via Bellerio, arriva perfino a chiamarle “praterie”. Insomma il dubbio esiste: se abbia davvero senso, cioè, inseguire Giorgia Meloni nella sua rincorsa all’eredità berlusconiana o se non convenga piuttosto lasciarla andare per poi lucrare sugli smottamenti che la sua svolta produrrà a destra.

Non che sia una strada tracciata. Tutto è fluido, per Salvini, in queste ore. Tutto è in movimento proprio perché nulla pare davvero muoversi. La tenuta di Forza Italia nei prossimi mesi è l’incognita da cui ogni speculazione dipende, e attorno a cui ogni previsione s’aggroviglia. Un anno fa, be’ sarebbe stato tutto un altro film. E quanto deve averci ripensato, Salvini, a quel pomeriggio di marzo  2022, quello del royal non-wedding di Villa Gernetto, quando il Cav., davanti alla torta nuziale, interruppe il rito delle foto per chiamarlo al suo fianco: “Matteo è l’unico leader vero che c’è in Italia, lui è sincero, lo ammiro e gli voglio molto bene”. Sembrò l’investitura definitiva. Tanto che quattro mesi dopo Matteo Renzi, con quel fare da grillo parlante, mentre al Senato tutto precipitava, quasi glielo ricordò: “Tu ora fai la crisi, mandi a casa Draghi e diventi il gregario di Meloni?”. Si sa come andò.

E forse è anche perché è andata come si sa che oggi Salvini,  pur conservando come un ricordo prezioso quella benedizione, potrebbe pensare di rinunciarvi a priori, alla gara per l’eredità politica di Berlusconi. Anzitutto perché in quella corsa Meloni parte troppo avvantaggiata: gioca a suo favore il consenso, la benevolenza dei giornali, la freschezza, insomma l’avere in mano le leve del potere e tutto quel che ne consegue. E in secondo luogo perché cambiare comporta rischi che Salvini ha già provato in corpore vili: fu seguendo il consiglio di chi gli suggeriva che “era il momento di moderarsi” che fece la mattata del Papeete, e fu in ossequio a quegli stessi consiglieri che entrò nel governo Draghi. Poi ci sarebbe da discutere sull’impensabile malagrazia con cui, per motivi diversi, Salvini attuò l’una e l’altra operazione, ma sta di fatto che il ministro dei Trasporti s’è convinto che entrambe le scommesse moderate si siano risolte in disastri. Mai più. Che la tenti Meloni, quella strada. Che se l’assuma lei, il peso delle contraddizione che la rincorsa al centro le imporrà.

In Europa, anzitutto. A luglio si vota in Spagna, in autunno in Polonia. E in entrambi i casi Meloni dovrà sciogliere l’enigma: rinnegare gli amici di sempre (Vox e PiS) per ingraziarsi i nuovi compagni di strada del Ppe? Oppure rinnovare fedeltà ai legami del sovranismo, e precludersi il dialogo coi Popolari? “Noi staremo fermi”, è invece il ragionamento di Salvini. Anche se, pur in questo sfoggio di coerenza, pur rinnovando le intese con Marine LePen e gli austriaci dell’FPÖ,  in verità il leader leghista lavorerà per scacciare da sé la vicinanza tossica dei tedeschi di AfD. E a quel punto, essere lui a poter rinfacciare a Meloni il tradimento dei valori che furono, delle promesse di un accordo esclusivo tra Ppe e Ecr, che non sta nelle cose perché non è sorretto dai numeri. “Se FdI s’avvicina al Ppe, vuol dire che si lascia trascinare nella grande coalizione con Macron e i Socialisti”, spiega un ministro leghista. Che già quasi si frega le mani a pensare, forse a sognare, l’emorragia di voti e militanti della Fiamma delusi da una simile abiura.

D’altronde anche nell’agenda di governo, è a Meloni che viene lasciato il compito di intestarsi le scelte ineluttabili e che però lei s’era impegnata a non prendere: dai balneari al Mes, fino alle trattative tribolatissime sul Pnrr, nella Lega si ripete una professione di fede che sa tanto di cinico distacco: “Ci fidiamo della premier” – che è un po’ come dire: “Ci divertiremo a vederla annaspare”. Perfino sulla guerra, Salvini s’è ritratto in un silenzio enigmatico. E sì che, a proposito di lascito berlusconiano, ne avrebbe da raccontare, se lo ritenesse conveniente, di quelle telefonate del Cav. che chiedeva se non si potesse limitare lo slancio filoucraino di Meloni, e poi ancora oltre, confidenze più indicibili, giudizi irripetibili su Zelensky. Ma sarebbe uno sfregio. Salvini, più semplicemente, è convinto che alla lunga succederà quel che ripete il suo capogruppo al Senato, Massimiliano Romeo, e cioè che “la linea bellicista non avrà più il sostegno popolare”. E forse neppure quello di un manipolo di azzurri che lì a Palazzo Madama, ora, potrebbero sentirsi più liberi di esprimere il loro dissenso.
 

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  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.