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l'intervista

Un patto con l'Europa per cambiare l'Italia. Parla Meloni

Claudio Cerasa

“Cambiare il Pnrr senza perdere soldi”. “Immigrazione? Occhio ai 900 mila in arrivo”. “Il Mes? Con una nuova direzione, se ne può discutere”. “Pronta a sfidare il consenso per difendere l’Ucraina”. Intervista al capo del governo

Ucraina, Europa, pacifismo, armi, immigrazione, riforme, Pnrr, mercati, natalità, nomine, donne, fisco, giustizia e un’idea, a sorpresa, per costruire un nuovo rapporto con l’opposizione, “per voltare pagina”. Sono passati esattamente sei mesi dal giorno in cui Giorgia Meloni ha ricevuto dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, l’incarico di formare un governo. Sei mesi dopo, era il 21 ottobre del 2022, Giorgia Meloni ha accettato di dialogare con il nostro giornale per ragionare su alcuni punti che hanno fortemente caratterizzato la sua azione di governo. Sei mesi sono un tempo molto ristretto per trarre un bilancio compiuto dell’esperienza di un esecutivo ma sono invece un tempo sufficiente per mettere a fuoco i punti di forza e quelli di debolezza di una maggioranza che promette di guidare l’Italia per i prossimi cinque anni. La nostra conversazione con il presidente del Consiglio parte dai due temi che forse hanno maggiormente animato il confronto con le opposizioni in questi mesi. Da una parte, l’immigrazione. Dall’altra parte, il Pnrr, il Piano nazionale di ripresa e resilienza.

Il Foglio, qualche giorno fa, ha criticato il governo per la postura da bulli mostrata dalla maggioranza su questo terreno, ricordando che avere un governo deciso a gestire l’immigrazione non come un tema da risolvere con provvedimenti strutturali, ma come un’emergenza da risolvere con provvedimenti spot rischia di aggravare i problemi del nostro paese, allontanando l’Italia da alcune priorità importanti (creazione di nuovi flussi regolari, modifiche al trattato di Dublino, rafforzamento della politica dei rimpatri). E la nostra prima domanda a Giorgia Meloni parte da qui. 

Presidente Meloni, nel suo primo discorso alla Camera lei ha ribadito la necessità di passare, sul tema dell’immigrazione, da una limitata dimensione nazionale a una più ambiziosa dimensione europea, per la gestione dei flussi migratori. Ha accennato anche alla organizzazione Sophia, poi sparita dai radar. Ci può dire almeno tre punti sull’immigrazione in cui l’Europa dovrebbe mostrare maggiore ambizione? E ci può spiegare in che modo il suo governo proverà a dare seguito a una battaglia che sembra volersi intestare, cioè la necessità di allargare le maglie al decreto flussi?

“L’immigrazione – ci dice Meloni – non è un tema ‘a parte’ rispetto al quadro geopolitico che ho cercato di descrivere. Il conflitto in Sudan, la presenza del gruppo Wagner in Africa, come ha ricordato il presidente Mattarella, sono un altro capitolo della ‘lunga guerra’ tra potenze vecchie, nuove, emergenti. La guerra in Ucraina ha un impatto multidimensionale – pensi alla crisi alimentare e delle materie prime che impatta sul destino di milioni di persone nelle aree più povere dell’Africa – che solo ora comincia a essere compreso nella sua pienezza. Nell’ultimo Consiglio europeo questo dato di realtà è emerso con chiarezza e abbiamo accolto con soddisfazione il dibattito per la qualità e le decisioni che sono maturate. Ho informato i partner europei e non solo ho trovato ascolto, ma piena collaborazione. Tutti ora sanno quali sono i problemi e le dimensioni della sfida. Non è più tempo di discutere, ma di agire”.

Già, ma come?

“Il problema della frontiera sud non è solo dell’Italia, ma dell’intera Europa. La situazione in Tunisia mi preoccupa ogni giorno che passa, ha bisogno di una risposta urgente, i servizi ci dicono che una potenziale ondata di 900 mila persone si prepara a sbarcare sulle coste dell’Europa. La Tunisia è uno stato che rischia il collasso economico e voglio ricordare – a futura memoria – che dalle città tunisine partirono le ‘primavere arabe’ che una politica sbagliata di nation building ha poi trasformato in drammatici inverni. Aggiunga la Libia dopo la caduta di Gheddafi, l’area del Sahel che è la prima porta d’ingresso verso l’Europa, la crescita demografica che prevede un aumento della popolazione africana di centinaia di milioni di persone e il quadro della crisi migratoria è completo, sotto gli occhi di chi vuol vedere. Se le aspirazioni al benessere e alla giustizia sociale non trovano risposte concrete – finanziamenti e riforme, assistenza che va declinata in presenza – il fallimento e il caos sono dietro l’angolo. Per queste ragioni la nostra diplomazia è impegnata con determinazione in tutte le sedi diplomatiche: va sbloccato il finanziamento di 1,9 miliardi del Fondo monetario internazionale alla Tunisia, devono muoversi l’Unione europea e la Banca mondiale. Visti i soggetti coinvolti, è chiaro che serve una collaborazione che va oltre i confini dell’Ue: l’Africa ha bisogno di un’azione anche degli Stati Uniti, degli alleati. L’immigrazione fa parte di questo scenario, noi faremo la nostra parte contrastando i trafficanti di esseri umani, salvando vite in mare, promuovendo gli ingressi legali e accogliendo chi ha davvero diritto alla protezione internazionale, costruendo un  futuro in Africa. Pugno duro con i criminali – abbiamo inasprito le pene contro i trafficanti, li perseguiremo ovunque – e mano tesa a chi ha bisogno e diritto all’accoglienza, sempre seguendo le leggi dello stato italiano e il diritto internazionale.

L’immigrazione è un fenomeno che va regolato, non possiamo permettere che siano i trafficanti a scegliere chi arriva in Italia. Sono loro i primi nemici di chi può trovare accoglienza e ricostruire la propria vita in Italia. Il decreto flussi risponde ai bisogni dell’Italia: è nel quadro dell’interesse nazionale che ragioniamo, è la nostra bussola, questi piani di sviluppo economico e sociale non possono essere sabotati dalle bande di criminali che organizzano la tratta degli esseri umani. L’Unione europea ha dato una prima risposta alle nostre analisi e proposte: in soli due Consigli a Bruxelles, quello del 9 febbraio e quello del 23 marzo, siamo riusciti a far cambiare paradigma. Noi abbiamo chiuso l’èra in cui l’Italia taceva: rivendichiamo il nostro ruolo attivo e chiediamo che anche gli altri stati costruiscano con noi una nuova politica migratoria europea. E’ nell’interesse di tutti. Per questo stiamo lavorando a un ‘Piano Mattei’ per l’Africa e lo mettiamo sul tavolo delle azioni concrete: un modello di cooperazione non ‘predatorio’ che dia la possibilità alle nazioni africane di cogliere con il nostro aiuto le grandi opportunità che derivano dalle loro risorse”.

A differenza del passato, ci sembra di capire, la destra sostiene che parte delle soluzioni utili alla regolamentazione del fenomeno migratorio vada trovata non sfidando l’Europa, ma creando le basi per una nuova collazione. I suoi tre punti?

“Con queste basi, i tre punti in cui l’Unione europea deve impegnarsi sono una conseguenza logica. Primo punto: l’Ue deve dar vita a un’operazione navale e aerea per la sorveglianza del Mediterraneo centrale e orientale e il contrasto dei trafficanti di esseri umani, in stretto coordinamento e appoggio con i paesi di partenza, che a loro volta devono essere dotati di tutti i mezzi necessari per stroncare la tratta. A questa nuova politica di messa in sicurezza delle frontiere esterne dovrà accompagnarsi una gestione comune dei rimpatri delle centinaia di migliaia di irregolari presenti sul territorio europeo. Secondo punto: l’Ue deve disporre di una robusta capacità finanziaria per gli investimenti economici nel continente africano, i finanziamenti dovranno essere erogati sulla base di accordi vincolanti, misurabili per obiettivi e risultati, prima di tutto con gli stati che sono oggi le basi di partenza dei migranti e con i paesi più poveri che hanno bisogno di aiuto immediato: cooperazione virtuosa in cambio di impegno a combattere l’immigrazione illegale. Terzo punto: una presenza capillare dell’Europa nella formazione, istruzione e ricerca per i giovani del continente africano, l’apertura concreta alla partecipazione delle donne alla vita delle istituzioni, la crescita culturale e consapevole dei diritti (penso anche al grande tema della libertà religiosa in paesi in cui ancora si muore perché cristiani) e dei doveri di ogni essere umano che costituisce il patrimonio più grande dell’Africa”. 

Rispetto ai rapporti con l’Europa, il dossier migratorio, in prospettiva futura, può avere una sua centralità, ma se si osserva il presente una grande e fragile priorità, per l’Italia e per la Ue, coincide con uno degli acronimi più famosi d’Italia: il Pnrr. Lei stessa ha detto in più occasioni che l’implementazione del Pnrr è uno dei principali obiettivi del governo e questo è chiaro. Meno chiaro, invece, è quali sono le modifiche che il governo intende proporre per cambiare il Pnrr. Ci può indicare una volta per tutte le priorità più importanti?

“Il Pnrr è una sfida per tutti, ma alcune cose vanno dette: lo abbiamo ereditato dai precedenti governi e il tentativo di mettere sulle spalle del mio esecutivo il peso di scelte sbagliate e ritardi ha il fiato corto. Gli italiani sanno benissimo come stanno le cose. Detto questo, siamo guidati dall’interesse nazionale, dunque faremo tutto quello che serve per raggiungere gli obiettivi fissati. Stiamo lavorando con la Commissione europea e intendiamo avvalerci di tutti i mezzi a nostra disposizione per realizzare le opere e fare le riforme necessarie. Il Pnrr soffre degli stessi problemi di altri strumenti concepiti prima del cambio dello scenario geopolitico. Siamo in un’economia di inflazione alta, rialzo dei tassi e guerra, non più di emergenza post pandemia. Il Pnrr ha problemi di costi delle opere – aumentati a causa del rialzo dei prezzi dei materiali da costruzione, non solo dell’energia – e ha un approccio ideologico di cui risente una certa transizione green calata dall’alto che ha bisogno di una correzione di rotta: difetta di pragmatismo e per calarlo nella realtà italiana (come in quella di altri stati) servono determinazione e calma, velocità e ponderazione. Una cosa è scriverlo (in qualche parte, male) a tavolino, un’altra è realizzare i progetti. Alla fine, la realtà bussa alla porta e ora a Palazzo Chigi c’è un governo che non ha usato quell’inchiostro e avrebbe fatto ben altro. L’abbiamo ereditato, ci impegneremo al massimo per gli italiani. Abbiamo detto alla Commissione Ue cosa ne pensiamo e cosa vogliamo fare, con spirito costruttivo e un grande senso di lealtà verso le istituzioni che rappresentiamo. Ci attendiamo lo stesso atteggiamento, da parte di tutti, anche dell’opposizione che tenta l’impossibile operazione di rovesciare la frittata. Le tre priorità del Pnrr? In realtà è una: non perdere soldi. E noi questo faremo, riportando le cose alla loro dimensione di progettazione e fattibilità”. 

Il Pnrr, facciamo notare a Meloni, non è però l’unico temibilissimo acronimo che rende movimentato, per così dire, il rapporto tra l’Italia e l’Unione europea. Avete presente il Mes, il famoso trattato relativo al Meccanismo europeo di stabilità che il governo italiano è l’unico nell’Unione europea a non aver ancora ratificato? Bene. Chiediamo allora a Meloni, provando a fare un passo in avanti: ma qualora fosse possibile legare l’eventuale ratifica del Mes con un accordo largo in Europa sul nuovo Patto di stabilità e sulle norme utili per rispondere al piano protezionismo americano (Ira: inflation reduction act) su cosa punterebbe, concretamente, il governo italiano per provare a giocare un ruolo di primo piano in Europa?

“Il negoziato è in corso – dice Meloni – e mi pare evidente che alcuni strumenti dell’Unione europea vadano aggiornati alla luce del nuovo scenario geopolitico. Il Mes, visto che lo ha evocato, è stato concepito quando eravamo in un altro mondo e nemmeno allora è stato utilizzato. Si tratta di uno strumento, non di una religione, e gli strumenti devono essere aggiornati, utili ed efficaci. Se deve contrastare le crisi finanziarie, allora non solo è sottodimensionato ma soprattutto non serve allo scopo. Mi pare sufficiente guardare in Europa a cosa è successo nel collasso del Credit Suisse. E’ quindi decisamente più serio pensare a costruire un’Unione bancaria forte. Se invece il Mes si trasforma in un veicolo per la crescita – cioè quello di cui oggi ha bisogno un’Europa che affronta l’impatto economico della guerra in Ucraina con l’affrancamento dalla Russia, la concorrenza tra blocchi e i cambiamenti profondi provocati dalla pandemia, pensi all’impatto sul commercio al dettaglio, all’esplosione del commercio digitale e alle modalità di lavoro flessibile – allora siamo pronti a discutere. Questa è la linea del mio governo. Far proprio uno strumento obsoleto non mi pare un’operazione lungimirante. Sono cose che condividono anche altri stati che hanno ratificato il Mes. Per l’Italia è una questione di obiettivi, di merito e sostanza, non di forma. Quanto al Patto di stabilità, se non sarà davvero ‘nuovo’, allora diventerà un altro problema e non la soluzione. Per questo si deve puntare alla crescita. Non sostengo che si debba rinunciare alla stabilità dei conti, anzi per noi è una priorità, ma chi sta fermo di solito non va da nessuna parte. Il Patto deve essere dinamico, flessibile, dare la possibilità di liberare il potenziale di ogni nazione in un mercato unico europeo che, tra l’altro, non può sopravvivere agli attuali squilibri fiscali. Al negoziato su questo tema si associa naturalmente una dimensione nuova sull’uso delle attuali risorse esistenti in Europa: se non c’è accordo su un nuovo Fondo di sviluppo, allora si liberino gli altri fondi introducendo una regolamentazione non restrittiva, in piena coerenza con il nuovo Patto di stabilità (e crescita), nell’ambito del quale dovremmo ragionare di escludere alcuni investimenti – quelli per la transizione ecologica e digitale ma anche quelli per la difesa – dal computo del debito. Con questa visione, il protezionismo di Washington non sparisce, ma a esso si risponde con la concorrenza aperta e leale tra noi e gli Stati Uniti, con nuove partnership commerciali transatlantiche, con politiche allineate delle banche centrali sui tassi e la gestione delle crisi (ricorrenti e sempre più ravvicinate), di collaborazione virtuosa dell’occidente per contrastare il vero pericolo per le nostre economie trasformatrici, la Cina e le altre economie non più emergenti, ma emerse e in piena rivoluzione industriale”. 

Il campo da gioco del Pnrr ci offre l’occasione per toccare con il presidente del Consiglio alcuni temi di carattere economico, solo apparentemente polverosi. In Italia, tanto per cominciare, in questo momento vi sono alcune partite industriali di primo piano, su cui si capirà con chiarezza cosa vuol dire, per il governo Meloni “difendere l’interesse nazionale”. Le partite che abbiamo in mente sono Ita, Priolo, Tim, Ilva. Ci può spiegare, nel concreto, in che modo il metodo Meloni intende creare un nuovo rapporto tra stato e mercato? E ci può dire se ha ragione chi sostiene che in partite come queste è necessario muoversi con il passo di chi cerca di evitare che il peso dello stato possa essere un ostacolo per il mercato?

“Il governo in alcuni casi ha un potere di intervento diretto, può creare condizioni favorevoli, in altri casi è un osservatore attento che gioca il ruolo dell’arbitro che fischia se c’è un fallo contro il giocatore che veste la maglia azzurra. Siamo interventisti in economia se c’è bisogno di tutelare l’interesse nazionale, ma abbiamo rispetto del mercato, ci piacciono gli azionisti e i manager che sanno affrontare la sfida dell’economia, la concorrenza, senza chiedere l’aiuto della mano pubblica. La responsabilità non è un dovere solo nostro, del Parlamento e delle alte istituzioni, è anche delle imprese, delle associazioni imprenditoriali, dei sindacati. La classe dirigente di una nazione come l’Italia non è solo quella politica. Deve essere chiaro a tutti che il tempo in cui nelle aziende si socializzano le perdite e privatizzano gli utili è finito”. 

La scorsa settimana, con discreto clamore mediatico e attenzione non sempre benevola dei mercati, il governo Meloni ha affrontato una sfida importante. Importante sia per l’economia italiana sia per la reputazione del governo: le nomine delle grandi partecipate dello stato. Chiediamo a Meloni che cosa ci dicono queste nomine sulla visione che ha il governo sul tema della transizione energetica e sul tema della difesa della sicurezza nazionale. E chiediamo con un sorriso se sbaglia chi sostiene che su questi due punti vi è un tratto di continuità con il governo precedente. 

“Prima di tutto – dice Meloni – le nomine sono state decise sulla base della competenza e non dell’appartenenza. Enel, Eni, Leonardo, Poste e Terna sono aziende strategiche e questa definizione non è una formula retorica, significa che sono essenziali per l’interesse nazionale. Il governo ne assicura l’autonomia, crea le condizioni per gli investimenti in Italia e l’espansione sui mercati internazionali con le proprie decisioni di politica economica e lo strumento della diplomazia. Sono società indipendenti che lavorano su mercati altamente competitivi, il governo le accompagna in un percorso che deve essere di risultati economici solidi e duraturi. Eni è un campione mondiale dell’esplorazione nel settore Oil & Gas e ha un piano articolato per l’area del Mediterraneo dove la presenza dell’Italia è storica; Enel è un produttore e distributore su cui contiamo per sviluppare l’infrastruttura nazionale; Leonardo è un’eccellenza globale nel settore della Difesa e delle nuove tecnologie; Poste è presenza capillare sul territorio e servizi avanzati per le famiglie e le imprese; Terna è la rete di distribuzione che deve essere efficace e sicura. Sono imprese che rappresentano i centri nevralgici della nazione. I manager indicati (e per la prima volta c’è una donna amministratore delegato di una delle grandi aziende partecipate dallo stato) sono persone con una vasta esperienza, alcuni sono stati riconfermati, altri vengono da storie imprenditoriali di successo, il nostro obiettivo finale è il rafforzamento e lo sviluppo delle aziende. Sulla transizione, la nostra politica è quella di usare al massimo il mix energetico delle fonti, rispondere al principio della neutralità tecnologica ed evitare dipendenze come in passato. Fare il disaccoppiamento dal gas russo per poi dipendere dalle terre rare della Cina sull’elettrico non è una scelta saggia, la transizione deve essere graduale, senza rischiosi balzi in avanti. In questa chiave lavoriamo con l’Unione europea, abbiamo salvato il motore endotermico e aperto un negoziato sui biocarburanti, siamo sulla strada giusta. La sicurezza nazionale non è solo quella dell’approvvigionamento energetico diversificato, ma la difesa dei posti di lavoro nella nostra manifattura, in particolare nel settore dell’automobile dove l’Italia è un grande produttore. Dobbiamo sviluppare la ricerca, investire in tecnologia, attrarre investimenti. Sono le linee guida di una politica che seguiamo in tutti i settori. In questo senso, la continuità, quando è nel solco dei risultati positivi raggiunti, è un valore”.

Anche la delega fiscale è un passaggio importante per l’identità del governo. Eppure, quando si parla di fisco, il governo appare spesso ambiguo. Da una parte, si afferma di voler combattere l’evasione. Dall’altra parte, con rottamazioni che somigliano molto a condoni, tentativi di limitare l’utilizzo del Pos, aumento del tetto del contante, i segnali appaiono essere diversi. Cosa ha intenzione di fare questo governo per combattere l’evasione? E quale sarebbe la priorità del presidente del Consiglio nel caso in cui sotto il suo governo la lotta contro l’evasione fiscale dovesse dare frutti importanti?

“La delega fiscale è uno strumento di entrata in un mondo nuovo, l’obiettivo è talmente semplice da apparire rivoluzionario: dare al fisco una dimensione di equità e certezza. Si aspetta una riforma strutturale del sistema tributario dagli anni Settanta, la riforma introdurrà una riduzione della pressione fiscale su cittadini, famiglie e imprese. Tra i numerosi interventi, procediamo alla revisione dell’intero meccanismo dell’Irpef con la riduzione a tre aliquote, prevediamo una flat tax per tutti sul maggior reddito dichiarato rispetto alle annualità precedenti, abbassiamo l’aliquota Ires per le imprese che investono o assumono e mettiamo mano alla giungla delle tax expenditures, agevolazioni ed esenzioni, che oggi conta più di 600 voci e 125 miliardi di spesa pubblica. Quanto all’evasione fiscale è chiaro che non è efficace combatterla solo con misure repressive: dal 2000 a oggi è sempre oscillata tra i 75 e i 100 miliardi di euro. Bisogna cambiare impostazione per favorire un rapporto meno conflittuale tra il fisco e il contribuente. Con l’istituzione del concordato preventivo biennale e il rafforzamento dell’adempimento collaborativo riscriviamo le regole della lotta all’evasione fiscale che diventa preventiva e non più solo repressiva e il contribuente viene incentivato a collaborare con il fisco. Guardi i numeri del ‘magazzino fiscale’ italiano: è pari a circa 1.153 miliardi di euro, 174 milioni di cartelle, di queste un 30 per cento sono cartelle notificate prima del 2010, un altro 30 per cento sono cartelle notificate tra il 2011 e il 2015. Sono cartelle che interessano più di 20 milioni di contribuenti e per ogni 100 euro riscossi, l’amministrazione ne spende quasi 10”.

Nella sua azione di governo, lei, presidente Meloni, ha sempre cercato di scommettere sull’ottimismo e l’idea di mostrare l’Italia per quella che è, e non per quella che è percepita, è una scommessa importante. Per essere ottimisti, però, occorrerebbe anche scommettere sul futuro dei giovani. E per avere a cuore il futuro dei giovani occorrerebbe avere a cuore un comparto in particolare: quello dell’innovazione. E invece notiamo che su questi temi il governo appare molto assente. La cifra destinata dall’Italia al comparto ricerca e sviluppo è ancora dell’1,4 per cento del pil, tenendo conto sia dei soldi pubblici che di quelli privati, ed è una delle percentuali più basse dell’Unione europea. E anche l’ultima Finanziaria, su questo punto, non ha cambiato la rotta. Glielo diciamo senza girarci troppo attorno: quando si parla di innovazione, pensiamo alle polemiche sullo Spid e sul Pos, il governo non sembra avere il tema come priorità. Su cosa si sente in grado di promettere che questo governo sarà concretamente dalla parte dei giovani?

“Ripeto quanto dissi nelle mie dichiarazioni programmatiche: l’Italia non è un paese per giovani. E prometto di non promettere, perché facciamo e faremo. Il governo attua politiche a largo raggio, com’è logico; dunque, ci stiamo occupando di lavoro (e non di sussidi per non lavorare) e di pensioni (anche per le giovani generazioni). Il lavoro che c’è e quello che ci sarà; le pensioni che ci sono e quelle che verranno. Su quest’ultimo punto, si dimentica che rispetto al passato l’assegno pensionistico verrà versato in base al regime contributivo, è un dato di realtà e tradotto significa che milioni di ragazzi che hanno iniziato a lavorare oggi rischiano di avere una pensione molto bassa domani. Ecco perché il sistema va monitorato e riformato. I giovani, come con accento retorico vengono continuamente evocati, capiscono benissimo chi cerca di usarli e chi invece ne conosce le aspirazioni interiori. Alcuni dati sull’occupazione di questi mesi di governo ci incoraggiano, ma per stabilizzarli è necessario un serio e concreto investimento nella conoscenza e nell’innovazione che sono il motore delle società complesse di oggi. Per questo il nostro impegno nella formazione e nel merito è massimo. Dobbiamo risollevare l’Italia dalle posizioni sotto le medie europee e degli stati avanzati non solo per l’investimento in ricerca e sviluppo in rapporto al pil ma anche per il numero di laureati, dottorati, ricercatori. Continuiamo a sprecare risorse per formare giovani di eccellenza che poi avvantaggiano i sistemi di ricerca e innovazione di nazioni estere. Un assurdo che va interrotto al più presto: la spesa in innovazione è la migliore forma di investimento, sia lo stato sia le imprese private devono capirlo e ci stiamo muovendo in questo senso. Abbiamo cervelli di assoluta eccellenza, dobbiamo capitalizzarne il valore. Non a caso, tra i temi prioritari degli incontri bilaterali con i leader esteri ci sono sempre la tecnologia e l’innovazione. A ben guardare, tutti i problemi prioritari sui tavoli internazionali cercano soluzioni su sanità, siccità, energia, efficientamento delle costruzioni e rinnovamento della mobilità… Il nostro approccio, a differenza di quello ideologizzato di altri, è su questo fronte assolutamente laico, aperto e attento solo ai risultati pratici e ai dati oggettivi. Per esempio, non abbiamo nessuna preclusione sul nucleare, dove l’Italia è sempre stata all’avanguardia, prima sulla fissione e ora sulla fusione. Il dibattito è un cantiere aperto, dove la tecnologia non è il fine, ma il mezzo che possiamo usare a favore di una società più equa e sviluppata. Noi guardiamo avanti, come diceva Albert Einstein, ‘non mi preoccupo mai del futuro, arriva sempre abbastanza presto’”.

Quando si parla di futuro, di economia, di innovazione, di crescita e di investimenti, non si può non avere in testa una priorità del nostro paese a lungo rimossa: la necessità di riformare la giustizia con un approccio finalmente garantista. Il ministro Nordio, dialogando con il Foglio alcune settimane fa, ha criticato il governo di cui fa parte per via della sua tendenza ad aumentare le pene, ma ha anticipato anche un fatto importante: entro maggio, ha detto, il governo porterà in Consiglio dei ministri “una riforma molto ambiziosa, ispirata ai princìpi non negoziabili del garantismo di governo”. Nel dettaglio: “Indagini segrete fino alla richiesta di rinvio a giudizio, nuove norme sulla prescrizione, rivoluzione sulla carcerazione preventiva, per governarne gli abusi”. Maggio è alle porte, presidente. Il governo ha davvero intenzione di sfidare il pensiero unico manettaro e la cultura tossica del processo mediatico?

“La riforma della giustizia ha un ruolo centrale. I cittadini ci hanno accordato la loro fiducia perché ci chiedono una giustizia giusta, veloce ed efficiente. Dobbiamo assicurare la certezza del diritto e mi pare che abbondino gli esempi contrari. Gli italiani chiedono tempi certi, un’esecuzione delle pene che non contraddica lo spirito della legge, un sistema di indagini che garantisca i diritti fondamentali dei cittadini, non calpesti la dignità della persona. Il ‘pensiero unico manettaro’ che lei evoca non fa parte della mia cultura politica e non penso neppure che sia dominante nella magistratura. La carcerazione preventiva va limitata ai casi necessari. La segretezza degli atti è sacrosanta: non è un liberticidio, è il rispetto della forma e della sostanza, non si può essere condannati nel clamore della stampa e poi essere assolti nel silenzio del tribunale, quando la tua vita è stata distrutta e nessuno potrà mai restituirtela. Dal penale al civile, serve una nuova cultura del diritto che è uno strumento di convivenza e non di guerra tribale. L’assenza di garantismo è un male, l’eccesso di garanzie ne è l’immagine capovolta. Servono equilibrio e cultura delle istituzioni, conoscenza della magistratura e sensibilità politica. Per questo Nordio è l’uomo giusto al posto giusto. A questo governo non manca il coraggio e la visione per portare avanti la riforma della giustizia. I cittadini hanno aspettato troppo”. 

Nell’incontro che ha avuto recentemente al congresso della Cgil, lei ha detto che la riforma istituzionale a cui il governo lavorerà non sarà frutto di ideologia ma di pragmatismo. “Una riforma in senso presidenzialista o comunque una elezione diretta del vertice dell’esecutivo, nelle forme che il Parlamento riterrà”. Ci spiega quali sono le coordinate necessarie di una sua riforma di questo tipo e se davvero lei è pronta a fare il possibile per portare dentro il tavolo della riforma anche l’opposizione?

“La nostra Costituzione è stata concepita con un bicameralismo perfetto, un presidente del Consiglio senza scettro, un presidente della Repubblica custode della Carta, una magistratura autogovernata. Sembra l’ideale, ma la storia mostra a tutti noi che abbiamo problemi di governabilità (nella storia della Repubblica si contano ben 68 governi in 78 anni, con una durata media quindi di poco più di un anno, soltanto dal 2000 a oggi i governi sono stati 14) che non possono continuare perché così perdiamo tutti. Viviamo in una realtà accelerata, le sfide sono multiple e su vari livelli, ci confrontiamo con altre nazioni che agiscono con rapidità. Rafforzare la democrazia significa renderla più efficiente e vicina ai bisogni immediati dei cittadini della Repubblica. Il presidenzialismo è la risposta a questi bisogni. La forma sarà oggetto di discussione parlamentare, ma la sostanza è un tema chiaro a chiunque viva nella realtà di ogni giorno, possiamo riformare tutte le leggi, avremo sempre il problema di riscrivere quella fondamentale che poi le governa tutte. Pesi e contrappesi sono necessari, un’architettura bilanciata è la bussola, ma la lentezza e l’immobilismo sono un nemico della contemporaneità, che alla fine vince sempre. Negli stessi lavori della Costituente c’è la testimonianza del dibattito su questi temi che oggi sono diventati un’urgenza. Nel 1946 Piero Calamandrei sosteneva che ‘non è indispensabile che si adotti integralmente in Italia lo schema della repubblica presidenziale quale è in vigore in America; basterebbe che ad essa ci si avvicinasse in un punto, che è quello dell’innalzamento e rafforzamento dell’autorità del capo del governo, attraverso l’approvazione solenne – popolare o delle assemblee legislative almeno – del piano in cui sia fissata la politica che intende seguire’. Le scelte dei padri costituenti furono altre e la direzione fu decisa dalla storia e dalle biografie. Non accadde niente e i governi nacquero deboli in culla. Se la storia conta ancora qualcosa, allora va detto che siamo in un’altra èra, la nostra Repubblica può voltare pagina. La democrazia italiana può divenire ancora più forte e solida attraverso una riforma in senso presidenziale dello stato. Con due obiettivi: maggiore stabilità di governo e rapporto diretto tra elettori e capo dell’esecutivo. Su questi presupposti sono disponibile a ogni ipotesi. Una riforma che io considero fondamentale e che può rappresentare anche una potente misura di sviluppo economico. Avere istituzioni più stabili ed efficienti significa poter godere di una maggiore affidabilità a livello internazionale e riuscire a concentrare le energie su grandi obiettivi strategici e di lungo termine”.

Il suo arrivo al governo ha contribuito, per ovvie ragioni, a dare al dibattito sulla presenza delle donne nei luoghi di potere una dimensione diversa, più concreta rispetto al passato. Si può dire che l’Italia, avendo un premier donna e un capo dell’opposizione donna, sia un’avanguardia in Europa, sui diritti e le opportunità per le donne? E ci spiega che cosa intende fare il suo governo per offrire alle donne la possibilità di poter considerare il merito non un’utopia ma una realtà, anche senza dover scommettere in modo ideologico sulle quote rosa?

“Le quote rosa non mi hanno mai appassionato, la realtà ha superato l’idea della ‘riserva’ femminile e la mia storia parla da sola, mi sono fatta largo in competizione diretta con gli uomini. Siamo in un momento storico di svolta, la forza delle donne è inarrestabile. Quello che serve all’Italia è un modello di welfare adeguato alla sfida della quotidianità, capace di considerare la genitorialità un valore aggiunto, non un peso o un ostacolo, e che sappia conciliare i tempi di vita e lavoro.

Direi che la pari dignità femminile è un parametro in base al quale si misura la civiltà di una nazione, per questo dobbiamo impegnarci affinché sia rispettata ovunque. Mentre per quanto riguarda il welfare famigliare, ricordo solo che il nostro governo ha messo finalmente mano a una normativa quadro a favore degli anziani, che in Italia rappresentano una quota ampia di popolazione e in aumento percentuale, purtroppo, a causa dell’invecchiamento e della denatalità. Una robusta politica a favore delle famiglie è indispensabile anche per uscire dalla glaciazione demografica nella quale stiamo vivendo e che mette a rischio la nostra nazione, la sua sostenibilità sociale, previdenziale ed economica. Ecco perché siamo fortemente impegnati su questo fronte. Anche l’attenzione che il governo sta ponendo ai Lep, i livelli essenziali delle prestazioni, nel quadro della riforma sull’autonomia differenziata, conferma la nostra sensibilità concreta verso le differenze, i divari e le fragilità sociali. Che non si curano né riducono certo con finte misure assistenziali”. 

Un elemento di grande armonia mostrato dal governo italiano con il resto dell’Europa, nei suoi primi sei mesi di vita, invece, è quello relativo alla posizione netta assunta dalla premier sul tema della difesa dell’Ucraina, chiara e senza ambiguità. Chiediamo allora al presidente del Consiglio di spiegare perché l’Italia ha il dovere di sfidare i professionisti della zizzania e continuare a fare tutto il necessario per difendere l’eroica resistenza di un paese aggredito. E chiediamo anche se il suo governo ritenga fuori luogo o no la recente richiesta della Corte penale internazionale, che un mese fa ha emesso un mandato d’arresto contro Putin. 

“L’Italia – continua Meloni – fa parte della Nato dal 1949, ha aderito alla Carta delle Nazioni Unite nel 1955, è stato fondatore dell’Unione europea. La nostra partecipazione alle istituzioni internazionali non è un pranzo di gala, sono impegni presi con i cittadini italiani che pagano le tasse e votano: sono azione politica. ‘Partecipare’ per me significa condividere valori fondamentali e trasformarli in decisioni concrete: quella del governo che presiedo è una presenza attiva. In Ucraina è in gioco non un’astratta libertà, ma quella dell’Europa, i nostri confini materiali e ideali sono minacciati dalla guerra d’aggressione della Russia. Siamo di fronte alla più grave crisi mondiale degli ultimi decenni, abbiamo ogni giorno la prova della competizione durissima tra l’occidente e quel ‘resto del mondo’ che di fronte a un segnale di ‘resa’, un rallentamento dell’azione a supporto della resistenza di Kyiv, potrebbe pensare che in fondo si può giocare d’azzardo con la guerra per centrare l’obiettivo più grande: indebolire l’ordine liberale e rafforzare il potere e l’influenza globale di dittature, democrature e regimi autoritari. Questo non lo possiamo permettere, per l’Europa è una prova della Storia che non ha alternative: dobbiamo ‘vincere la pace’. E, per vincerla, dobbiamo sostenere l’Ucraina sul piano politico e militare con fermezza e saggezza. Ho visto in Parlamento chi agita la bandiera di una pace astratta accusare il governo di trascinare l’Italia verso la guerra, di spendere soldi per le armi. Niente di più falso, sbagliato e pericoloso per il nostro futuro. Sulla spesa, diamo a Kyiv sistemi di difesa che già abbiamo e aggiungo che ogni vita salvata grazie al nostro supporto per me non ha prezzo”. 

Presidente, ce l’ha con i pacifisti?

“Chi parla genericamente di pace dimentica che c’è la guerra, ignora la realtà sul campo di battaglia, non è mai stato in Ucraina – dove sono andata e ho visto con i miei occhi la devastazione, il dolore, il lutto, l’orrore, l’eroismo e la speranza di chi vive ogni giorno come se fosse l’ultimo – e pretende la resa non solo del valoroso popolo ucraino, ma anche la nostra. Sono in corso cambiamenti radicali, ne vediamo l’impatto socio-economico immediato, ma all’orizzonte, se facciamo lo sforzo di guardare al medio-lungo periodo, abbiamo uno scenario dove gli equilibri internazionali sono in trasformazione. Democrazia e libertà sono la conquista di ogni giorno. E il governo dell’Italia che ho l’onore di guidare può e deve essere protagonista. Il progetto europeo si fonda su questi pilastri, la forza del diritto internazionale – che la Russia ha violato con l’invasione dell’Ucraina – non può essere scambiata con il diritto del più forte. Il nostro sostegno all’indipendenza dell’Ucraina non mancherà mai, sarà sempre coordinato con gli alleati, in un quadro di multilateralismo.

Daremo all’Ucraina tutta l’assistenza di cui ha bisogno per esercitare il diritto alla legittima difesa, secondo quanto stabilisce la Carta delle Nazioni Unite, secondo quello che ci detta la nostra coscienza di europei, di italiani che amano e difendono la libertà. Le decisioni dell’Unione europea, le azioni della Nato, sono coerenti con i nostri ideali. Difese aeree e munizioni sono lo scudo di cui ha bisogno Kyiv per difendere la vita dei civili, la Russia bombarda la popolazione in maniera indiscriminata, punta a distruggere le infrastrutture (acqua, luce, riscaldamento, trasporti) necessarie per la vita quotidiana di uomini, donne, bambini. Quella di Mosca è una guerra di logoramento che ha l’obiettivo di piegare la volontà del popolo ucraino e la nostra risolutezza. Ma la Russia questa volta è dalla parte sbagliata della Storia. L’ho detto e lo ripeto: non è una questione che si può sottoporre al consenso del momento, la sfida è immensamente più grande e chi pensa alle percentuali dei sondaggi spalanca solo le porte di una sottomissione all’aggressore. Agli sbandieratori dell’arcobaleno, ai maestri dell’utopia dico: pensate ai vostri figli e ai vostri nipoti, volete per loro un domani in un’Europa minacciata e senza libertà? Churchill diceva che ‘chi vive nella libertà ha un buon motivo per vivere, combattere e morire’. Questo è il tempo di ricordare le sue parole, servono a comprendere le ragioni profonde della fiera resistenza dell’Ucraina. Sono anche le nostre”. 

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.