Processo a Giorgetti

Valerio Valentini

La Lega esce sconfitta nella partita delle nomine. E il ministro dell'Economia, che ha creduto fino all'ultimo in un'intesa con Meloni, finisce alla sbarra nel suo partito. L'asse di sicurezza tra Palazzo Chigi e Mef non c'è più. Salvini medita rappresaglie. Effetti collaterali della prova di forza della premier 

C’è il dispiacere, certo. Ma più ancora c’è la politica: e forse è quella, soprattutto, che preoccupa Giancarlo Giorgetti. Il suo viso teso, rabbuiato, mentre lasciava Piazza Colonna per imbarcarsi alla volta di Washington, diceva quello: di un asse, quello tra il Mef e Palazzo Chigi, su cui il ministro aveva scommesso, e che ora, franando sul tema su cui pure il capo del Tesoro avrebbe maggiore peso negoziale, e cioè le nomine, rimette in moto l’entropia della Lega meno governista. Quella che già lo accusa “di averci rassicurato fino all’ultimo, finché siamo rimasti fregati”.

Ci aveva creduto davvero, questo lo confermano anche i suoi collaboratori. Credendo, cioè, non tanto nella cedevolezza di Giorgia Meloni (“Figuratevi se molla”), ma piuttosto nel suo acume politico. “Non sarà così sciocca da inimicarsi il leghista più conciliante su cui può contare”, dicevano, della premier, i parlamentari vicini a Giorgetti. E invece, tra gli effetti collaterali di questa prova di forza della premier, un po’ wannabe Mario Draghi (“Questi sono i nomi a cui ho pensato”) un po’ Marchese del Grillo (“Io so Giorgia, e voi…”), c’è proprio la perdita di credibilità del ministro dell’Economia. Ma non sul piano del governo, né su quello dei mercati: è dentro il Carroccio che da oggi Meloni dà nuova forza all’ala oltranzista. Quella, per capirci, che alla presidenza dell’Eni voleva Antonio Rinaldi.

E dire che l’accordo, stavolta, tra Giorgetti e Salvini aveva retto davvero. Il segretario aveva creato, e con un certo acume, due diversi tavoli per le trattative. Il primo, quello “di partito”, lo aveva affidato ad Alberto Bagnai, con Armando Siri a supporto. Li aveva tenuti impegnati, esortandoli a stilare una lista di nomi per i cda delle grandi partecipate, e poi ad affinarla, quindi a contrattarla con gli alleati nelle riunioni preliminari, quelle che i leader devono promuovere per far sentire tutti coinvolti. Giorgetti amministrava l’altro tavolo, quello “di governo”, quello insomma che contava, e lo faceva d’intesa con Salvini, muovendosi con discrezione e riservatezza, eludendo, spesso dopo averle fomentate, le manovre diversive che fungevano da depistaggio. Sembrava che la cosa funzionasse. Salvini s’è fidato del suo ministro. Fino all’ultimo. E fino all’ultimo Giorgetti è rimasto convinto di potere “smuovere” Meloni dalle sue convinzioni.

Su Leonardo, per dire, Guido Crosetto, che insieme a Giorgetti era il grande sostenitore di Lorenzo Mariani, capo di Mbda, già venerdì aveva ceduto. Qualcuno, tra i suoi amici, gli aveva già proposto, addirittura, mosse clamorose: annunciare una candidatura alle europee, ad esempio, magari nella speranza di andare a succedere a Josep Borrell come capo della diplomazia di Bruxelles, o addirittura rassegnare le dimissioni. Il ministro della Difesa ha cercato invece di riequilibrare in extremis la partita, sia pure parzialmente: ecco allora la proposta dell'mbasciatore Stefano Pontecorvo come presidente; ecco, perfino, la trattativa per promuovere proprio Mariani – che in queste ore è a Parigi e che ancora sta valutando l’offerta – a direttore generale dell’ex Finmeccanica, dunque farne un vice di Cingolani con deleghe sul settore militare.

Insomma, se Crosetto valutava già una ritirata tattica, Giorgetti nella bontà delle trattative con la premier ci credeva ancora, e non a caso anche Maurizio Leo, viceministro meloniano dell’Economia, s’è attivato per predicare a Meloni la via della mediazione. Fino a ieri mattina, quando il ministro s’è trovato a dovere, pure lui, alzare la voce con Giovanbattista Fazzolari, gran visir meloniano sulle nomine. “Se blindate Cingolani, e sapete che è una decisione conflittuale, dovete cedere almeno su Poste”. Macché. “Ma allora almeno su Enel, rinunciate a Stefano Donnarumma”. Le hanno provate tutte, i leghisti, per convincere Meloni e soci: perfino insistendo, e su questo Giorgetti si è speso non poco, nell’evidenziare come quasi tutte le scelte benedette da Meloni costituivano delle riconferme di dirigenti di stagioni passate, quando al potere c’era il centrosinistra. Niente di fatto. Quando Giorgetti lascia il Cdm per volare a Washington, per gli Spring meetings del Fmi, neppure un amministratore delegato è stato concesso al Carroccio: disfatta totale. Con la beffa ulteriore, per Giorgetti, che a ufficializzare questa umiliazione della Lega dovrà essere proprio lui, su carta intestata del suo ministero. Ed è un comunicato che segna, di fatto, una transizione: il ruolo di mediatore che finora il ministro dell’Economia ha svolto verrà meno, e insieme con quello svanirà, sia pure progressivamente, il fare conciliante di Salvini, specie ora che fiuta buon vento dopo il successo friulano. Del resto, per dirla con un suo confidente, “se a essere concilianti è questo, ciò che si ottiene…”. Questo, al momento, è nulla. O lì da presso.
 

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  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.