Per il Pnrr la Meloni pensa a un "decretone" di fine anno. Ma la furbata non convince Bruxelles

Valerio Valentini

In ansia sugli obiettivi di dicembre, al governo studiano l'ipotesi di un provvedimento d'urgenza con tutte le misure in sospeso. Ma la Commissione ha già espresso perplessità: ecco i motivi. E poi c'è la Germania, con Lindner critica le richieste italiane: "Chiedete sempre manovra espsansive, e ora che ci sono i miliardi non li spendete?"

Te lo ricordi, il Portogallo? Wanda Ferro, attuale sottosegretario all’Interno, a febbraio già si appellava al modello di Lisbona, dove le minacce dell’establishment non attecchivano e infatti si andava al voto anticipato: “Qui si dice che non si può votare sennò non si rispettano le scadenze del Pnrr. Ma è un grido d’allarme per spaventare gli italiani, perché si sa che in caso di elezioni il Piano viene sospeso”. Niente di più facile. Giorgia Meloni, poi, di voler fare alla lusitana, lo disse durante la campagna elettorale discutendo con Enrico Letta: “Il governo socialista portoghese ha portato in Europa la sua proposta di revisione del Pnrr e Gentiloni ha detto che è molto interessante. Se lo fa il Portogallo socialista va bene, e se lo fa l’Italia no?”. In verità non andava mica tanto bene neppure in Portogallo, la cui richiesta di proroga fu infatti sostanzialmente rigettata da Bruxelles.

E forse è per questo che ora Raffaele Fitto, che del Pnrr è il sommo responsabile del governo, ai suoi colleghi patrioti ha detto che no, inutile chiedere un rinvio delle scadenze “perché non è un’opzione plausibile”. Solo che anche lui, nella consapevolezza di non poter sforare i tempi, nell’ansia di non fallire subito al primo traguardo intermedio dell’èra Meloni, quello di fine dicembre, ha pensato a un escamotage che agli uffici della Commissione non sembra destinato a piacere granché. Un decreto legge d’emergenza con dentro tutte le procedure incombenti, da varare in Cdm in tutta fretta tra Natale e Capodanno, è un’ipotesi su cui i funzionari di Ursula von der Leyen sollevano il sopracciglio. E del resto, l’avvertimento è già stato lanciato.

E’ successo, per  vie informali, nei mesi passati. Quando, cioè, da Bruxelles avevano chiarito che l’approvazione tramite decretazione d’urgenza di misure contemplate tra gli obiettivi del Pnrr non vale di per sé a considerare conseguiti quegli obiettivi, se per la ratifica dei provvedimenti serve poi un passaggio parlamentare. Visto che, va da sé, in sede di conversione le Camere potrebbero  modificare la sostanza del testo. Anche perché qui si passa per l’assunto più volte espresso da Paolo Gentiloni negli incontri coi ministri italiani delle scorse settimane: e cioè che deve essere proprio l’Italia a consentire alla Commissione di essere flessibile. Mario Draghi, per dire, adottò in effetti una strategia analoga a quella vagheggiata da Fitto: nel senso che un target previsto sulla Scuola –  l’introduzione della figura del docente esperto – fu inserito tra quelli raggiunti nella relazione redatta a Palazzo Chigi a giugno del 2022, anche se poi la sua effettiva ratifica arrivò a inizio settembre –  giusto in tempo per l’analisi finale da parte di Bruxelles – col varo del dl Aiuti bis. Ma si trattava di un dettaglio dell’intero pacchetto da 45 obiettivi. E poi c’era Draghi.

Ora Meloni, che non è Draghi, valuta un’ipotesi ben più azzardata. Perché, come Fitto ha spiegato in una recente riunione con la premier, gli obiettivi da completare, di qui a fine anno, sono “ancora 30, perché nessuno di questi è definitivamente chiuso”, e poi “ce ne sono almeno tre o quattro” – e si tratta per lo più di questioni relative all’Università, all’assegnazione di alloggi per studenti meritevoli, a proposito di merito, e ballano 300 milioni di fondi – su cui grava un’incognita ben più pesante. Davvero, dunque, risolvere  con un decreto omnibus una parte così consistente di misure potrebbe bastare a convincere la Commissione? Difficile da credere, sentendo gli umori prevalenti a Bruxelles. Senza contare, poi, che alcuni degli obiettivi da raggiungere, come quelli sulla Concorrenza, consistono in decreti attuativi su vari singoli aspetti e su cui il Parlamento ha già dato delega all’esecutivo, per cui riportare tutto in un decreto legge creerebbe uno strano guazzabuglio procedurale. Tanto più che difficilmente un simile provvedimento potrebbe essere messo a punto prima di Natale. Per questo, dunque, tentare di persuadere i collaboratori della Von der Leyen con questo azzardo sarebbe poco raccomandabile.

Così come lo è, più in generale, l’atteggiamento che il governo Meloni sta tenendo sull’intero Piano. I toni adottati dai ministri patrioti sono assai più cupi della situazione che gli ispettori della Commissione hanno trovato nella loro recente visita a Roma. Di qui, il sospetto – sempre più diffuso, a Bruxelles – che più che altro si cerchi di esasperare i toni per giustificare anzitempo un eventuale inciampo. Che, a ben vedere, non sarebbe affatto preventivabile: perché tra i 55 obiettivi di dicembre ci sono quasi esclusivamente riforme da varare, e su quelle l’inflazione e la mancanza di materie prime possono incidere ben poco. Per questo Gentiloni aveva raccomandato una strada diversa: dare il massimo fino a fine anno per poi avere maggior peso negoziale nella discussione di eventuali modifiche del Piano, d’altronde già previste tra gennaio e marzo nel contesto del  varo del RePowerEu. Ed è in quel momento che sarebbe logico apportare anche modifiche alla struttura della governance, se le si ritiene necessarie. Invece con troppo anticipo, con un’ansia intempestiva, si è sollevato il coro dei ministri che, addirittura, sono arrivati al paradosso di chiedere meno finanziamenti di quelli previsti dal Pnrr. Dando così agio a chi, come Christian Lindner, non ha mancato, a margine dell’ultimo Ecofin, di sottolineare il paradosso: “Si è sempre rimproverato alla Germania di ostacolare misure espansive per la riduzione del debito, e ora che i miliardi ci sono – è stato il senso della battuta del ministro delle Finanze tedesco – si chiede di ridurli perché non si riesce a spenderli?”. Ecco, quando dice che deve essere l’Italia a consentire alla Commissione di essere più flessibile, Gentiloni deve pensare a frasi del genere.
 

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  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.