Il caso

L'ultima di Miccichè contro la giunta Schifani: "Ci vediamo in tribunale"

Paolo Mandarà

Nuova puntata della litigiosa saga di FI in Sicilia. Duro scontro tra il commissario regionale del partito e l'assessore all'Economia Marco Falcone alla “Festa del Tricolore”, la kermesse catanese di Fratelli d’Italia

Gianfranco Micciché minaccia di rivolgersi alla Procura. Il commissario regionale di Forza Italia, in Sicilia, è alle prese con una durissima battaglia politica che potrebbe trovare il suo epilogo in tribunale. La spaccatura del partito in due – Micciché da un lato, Schifani dall’altro – è stato il leitmotiv di queste settimane che hanno accompagnato l’insediamento del nuovo presidente e del suo governo. Ma le scintille non sono terminate all’indomani della creazione di due gruppi parlamentari contrapposti (Forza Italia 1 e Forza Italia 2) all’Assemblea regionale. Sono proseguite, piuttosto, sul palcoscenico più insolito: alla “Festa del Tricolore”, la kermesse catanese di Fratelli d’Italia.

Qui, domenica, è andato in scena il teatrino con protagonisti Miccichè e Marco Falcone, assessore regionale all’Economia e braccio destro di Renato Schifani. Nonché fiero oppositore del leader siciliano che Berlusconi non si rassegna a rimuovere. Micciché, nella percezione degli “ortodossi”, è considerato un “guastatore”, perché capace, dal primo giorno della legislatura, di avanzare pretese, creare tranelli e alimentare malumori, sulla scia della scorsa legislatura quando la tensione con Musumeci sfociò nella mancata riconferma di quest’ultimo. Stavolta la resa dei conti è giunta in anticipo, con un governo alla terza settimana di vita. Falcone ha chiesto a Micciché di farsi da parte “perché Forza Italia non ti riconosce più. Devi andare a casa, è arrivato il tuo momento”.

 

Dichiarazioni rabbiose, dettate da un’interlocuzione impossibile. E condite da una serie d’accuse: “La notte andavi a concludere gli accordi o a chiedere le cose, incassavi e il giorno attaccavi - ha ostentato Falcone -. Quello che Musumeci ha dato a noi di Forza Italia non ce lo darà più nessuno. Tu hai avuto sette direttori generali delle Asp (le Aziende sanitarie provinciali) e 13 presidenze”. “Che imbroglione”, ha ribattuto dal vivo Micciché. Che a mente lucida è andato oltre: “Auspico che la Procura della Repubblica di competenza, avvii immediatamente le indagini sul metodo di assegnazione degli incarichi fatte dal passato governo regionale, su mie ipotetiche pressioni”.

In qualità di rappresentante legale del partito in Sicilia, il vicerè berlusconiano aveva già diffidato il presidente dell’Ars (Gaetano Galvagno, di FdI) a concedere il nome e il simbolo di Forza Italia al gruppo parallelo nato al parlamento regionale per iniziativa degli schifaniani, specificando che “ove dovessero intervenire atti lesivi della legittima rappresentanza del partito in riferimento alla sua proiezione istituzionale, lo scrivente attiverà senza indugio ogni strumento a tutela della stessa”.

Ora, al netto della combutta giudiziaria, resta il partito. Ridicolizzato, fatto a pezzi da una follia senza precedenti. Da questa comunicazione muscolare che non genera vincitori né vinti. Solo qualche risolino beffardo da parte degli alleati. Eppure Berlusconi – che nel fine settimana s’è ritagliato qualche ora per aggiornare la governance del partito in Campania, dopo l’addio di Caldoro – non è mai intervenuto direttamente. Ha avuto contatti telefonici – così giurano i protagonisti – sia con Schifani che con Micciché, senza procedere d’ufficio a stabilire nuove regole. O quanto meno un principio di continenza nelle dichiarazioni pubbliche.

Schifani, che dalla festa di Fratelli d’Italia s’era congedato qualche minuto prima del fattaccio, ha commentato quasi con distacco: “Sono amareggiato per questa divisione del partito in Sicilia, ma non intendo farmi distrarre” dall’azione di governo, che per altro lo costringe a trovare una soluzione al ‘buco’ di 860 milioni rilevato alla Corte Dei Conti. “Non c’è dubbio - ha aggiunto - che all’interno di FI c’è un problema strutturale, ma io ritengo di avere fatto delle buone scelte anche nella individuazione della giunta”, perché “ho seguito dei criteri secondo me di buon senso”. La selezione del nuovo esecutivo è l’inizio della fine: quella che ha fatto scattare in piedi Micciché e l’ha convinto a diventare un battitore libero, capace di determinare – nonostante numeri risicati (appena 4 deputati) – le sorti della maggioranza in aula. “Schifani? Pensi a fare il padre nobile della Sicilia, anziché il capocorrente di un partito - è stata la dura reprimenda di qualche giorno fa - E’ l’unico presidente che, dal giorno dopo l’elezione, ha lavorato a restringere la sua maggioranza anziché allargarla”. Facendo fuori proprio lui, il pomo della discordia.