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Il vero dramma del Pd? Il carisma incompatibile con la guida del partito

Claudio Cerasa

Dopo la sconfitta: i problemi non si risolvono solo cambiando segretario. Quello che serve è un’idea diversa di leader, una tenda più larga, un sogno da offrire anche oltre le Ztl. Competere per non perire, emozionare per non crollare. Buon congresso 

Piero Ignazi, illustre politologo bolognese, molto coccolato dalla sinistra desiderosa di esportare in Italia il modello Corbyn-Ocasio-Cortez, due giorni fa, nel corso di una trasmissione televisiva, ha offerto a chi lo stava ascoltando una tesi molto suggestiva sul risultato elettorale e ha provato a inquadrare la difficile fase storica vissuta dal suo partito di riferimento, ovvero il Pd, sostenendo quanto segue: il centrodestra ha vinto, sì, ma il Pd, in verità, non ha affatto perso come si dice, essendo andato meglio del 2018, avendo ottenuto più voti del M5s, avendo più del doppio dei voti del partito di Renzi e di Calenda ed essendo in fin dei conti oggi il secondo partito italiano. Gli ottimisti, come sapete, ci piacciono da impazzire, e chiunque riesca, di fronte a un bicchiere, ad apprezzare più il volume mezzo pieno che quello mezzo vuoto merita tutta la nostra simpatia. Il problema però di chi sposa la tendenza Ignazi – ma su, che volete che sia, è solo una sconfitta politica, non strategica, la strada seguita dal Pd è quella giusta, non servono rivoluzioni, servono semmai manutenzioni – è lo stesso problema di chi, di fronte al famoso bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto, non si accorge che il problema di quel bicchiere non è quanto sia pieno ma quanto sia bucato, di quanto sia perforato al suo interno, di quanto sia incapace in modo irreversibile di far alzare il livello della sua acqua. 

E dunque, più che ricordare a Piero Ignazi l’ovvio, ovverosia che quella del Pd non è stata una piccola scivolata ma è stata una catastrofe politica, strategica, culturale e identitaria, la peggiore come consensi ottenuti da una coalizione dal 1948 a oggi, è utile invece prendere sul serio una dichiarazione del sindaco di Milano, Beppe Sala, che pur dicendo l’ovvio ha centrato un punto. Nostra sintesi: i problemi del Pd, dice Sala, che il Pd lo osserva da simpatizzante pur non essendo iscritto, non si risolvono cambiando un segretario ma si risolvono andando alla radice dei mali di un partito. Un partito che non è vero che è morto (quante volte il Pd è stato dato per finito?). Che non è vero che è un amalgama mal riuscito (come sostiene il direttore della Stampa Massimo Giannini). Ma che è semplicemente un partito che ha scelto di non affrontare il suo peccato originale. Sintetizziamo anche qui in modo brutale: può un partito che ha reso incompatibile con il proprio profilo politico il modello della leadership carismatica ambire a diventare un partito desideroso di non accontentarsi della sua rendita di posizione? In altre parole: può un partito che considera sistematicamente “di destra” ogni tentativo di allargare il proprio bacino di consenso e che considera “populista” ogni tentativo di essere popolare ambire a diventare un partito nuovamente maggioritario? E ancora: può un partito che ha scelto di legare la sua identità al tema delle alleanze, senza preoccuparsi poi di costruire a ogni costo alleanze nel momento decisivo, ovvero quando la legge elettorale che hai scelto di non cambiare ti impone di fare alleanze, immaginare di essere pronto ad affrontare un ambizioso percorso di ricostruzione politica? E per finire: può un partito i cui capi corrente, i cui teorici leader si sono rifiutati sistematicamente di misurarsi, in termini di consenso personale, nei collegi uninominali, rifiutandosi dunque di fare una campagna elettorale tosta, sul campo, che avrebbero dovuto fare in caso di sfida  personale, far finta di non capire che una realtà politica fondata più sulle correnti che sul consenso, senza identità, continuerà a essere ancora a lungo caratterizzata da una leadership  debole il cui compito prioritario è quello di tenere in vita la propria classe dirigente?

Il Pd, come già si intuisce oggi, passerà i prossimi mesi a discutere di centimetri, di distanze giuste da mantenere o da accorciare con il M5s da un lato e con il partito di Calenda e Renzi dall’altro (e speriamo che non discuta se fare o no le primarie: senza competizione tra potenziali leader il Pd potrebbe essere ancora più debole rispetto a come lo è oggi). Ma ancora una volta, anche in questa stagione, non affronterà un tabù, un peccato originale che si porta sulle spalle più o meno dal 2014, quando cioè il Pd, ai tempi di Matteo Renzi, ai tempi del suo 40,8 per cento, scelse di inserire una novità sostanziale nel suo patrimonio genetico e scelse di creare una repubblica speciale, fondata sul lavoro della distruzione sistematica delle leadership carismatiche. E una volta che ci si ritrova ad avere uno statuto del Pd che sconsiglia a chiunque abbia carisma di lavorare sulla propria identità, uno statuto immateriale che considera l’identità del partito più importante dell’identità del candidato, succede quello che rischiamo di vedere anche a questo giro. Succede di vedere la campagna congressuale caratterizzata da una allegra battaglia di correnti desiderose di offrire ai propri elettori minestroni senza sale, composti di ingredienti banali, scontati, accattivanti solo a parole e solo sulle timeline di Twitter.

In questo senso, il Pd di Enrico Letta ha avuto molti limiti – l’ultimo dei quali è stato non essere riuscito a fare l’unica cosa che Letta doveva fare, non pacificare il Pd ma costruire un campo largo mettendo insieme il M5s e il partito di Calenda, e non si capisce perché questi partiti possano governare insieme in Europa (Ursula) e non possano governare insieme in Italia – ma ha scontato un problema che oggi gli stessi suoi possibili successori hanno scelto di non affrontare fino in fondo: cosa fare per avere di nuovo alla guida del partito non un abilissimo amministratore di condominio ma un leader identitario capace di emozionare, di far sognare, di considerare l’essere popolare non come una prerogativa di chi è inevitabilmente populista. E soprattutto, cosa fare per tornare a quello che era il progetto originario del Pd. In altre parole: non restringere la sua tenda ma provare ad allargarla di nuovo, osservando sì il M5s come un alleato forse inevitabile laddove esistono leggi elettorali che ti costringono ad allargare le tue alleanze, e ponendosi come obiettivo un allargamento del partito favorendo non processi di scissione ma nuove aggregazioni – e provando cioè a considerare i Calenda e i Renzi non come avversari da cui difendersi ma come possibili partner nella ricostruzione di un partito più grande e più ambizioso rispetto a quello attuale. Il problema del Pd, dunque, non è quello di trovare un nuovo segretario, ma è chiedersi perché il partito ha scelto di fare della popolarità di un leader un problema da arginare piuttosto che un’opportunità da sfruttare. Una tenda più grande, una coalizione più ampia, una guida riconoscibile, un mondo da rappresentare non limitato alla Ztl, un modello laburista da esportare e un sogno da offrire diverso dall’essere un semplice argine. Non sarà semplice, ma la sfida del Pd in fondo è tutta qui.  Competere per non perire. Emozionare per non crollare. Buon congresso a tutti.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.