Salvini esclude la crisi. "Ma il problema è chi circonda Matteo", dice Giorgetti

Valerio Valentini

L'ex ministro dell'Interno ai senatori: "non evocate la rottura con Draghi, perché non è un'eventualità". Il patto di Via Bellerio per evitare il Papeete Bis insieme a Conte. I contatti costanti tra il leader della Lega e il capo del M5s. La rabbia di Fedriga, che se la prende con chi (come Borghi) fomenta gli haters nella guerra interna al partito.

Giancarlo Giorgetti la domanda s’è ormai stancato di porsela. Avrà capito, Matteo Salvini? “Ma lui è fatto così. Si lascia trascinare da chi gli sta intorno, poi viene a chiedere una mano per sistemare le cose”. Questa è la spiegazione che il ministro dello Sviluppo offre a chi chiede un’interpretazione delle ambigue volontà del capo. Ed è in questa oscillazione costante tra azzardi e ripensamenti che i governisti della Lega provano a trovare un nuovo equilibrio, all’indomani del vertice di Via Bellerio che doveva chiarire e che è servito a rinviare. Tutti, almeno, tranne Massimiliano Fedriga. Lui ha ormai accettato le stimmate del capo dei riottosi. Silenti ma non troppo, se è vero che qualche giorno fa il presidente del Friuli è sbottato lamentando come la gran parte degli haters che da mesi lo insultano sui social per il suo sostegno a Draghi e al green pass sono in realtà fomentati dalla bolla animata da Claudio Borghi&Co., che usano i propri follower come arma di logoramento per gli avversari interni.

Insomma, il giorno dopo il vertice, per Salvini e chi deve stare dietro alle sue bizze, è il giorno della marmotta. Quello in cui forse lo si è convinto a darsi una regolata, o forse no. E sì che sarebbe un giorno buono, per rivendicare la propria centalità nelle dinamiche della maggioranza, perché nel frattempo il M5s manda in fibrillazione il governo sul dl Aiuti, e il Pd, terrorizzato più di quanto Enrico Letta non voglia dire di un’eventuale mattata di Giuseppe Conte, che asseconda gli incapricciamenti grillini per  evitare di ritrovarsi da solo insieme alla destra a sostenere Draghi. Ed è su quello che, ad esempio, uno come Massimo Garavaglia suggerisce di puntare: “Se cambiano gli equilibri parlamentari, se i numeri del centrosinistra si riducono, noi dobbiamo farci valere”. Senza strappi, però.

E forse sarà davvero questa, almeno per un po’, la strategia di Salvini. Che ieri ha mandato il suo capogruppo a Palazzo Madama a ribadire il concetto (“siamo responsabili, ma non fessi”) al termine di una riunione coi senatori nella quale il segretario ha rinnovato la stessa catechesi impartita giorni fa ai deputati: “Siccome non vogliamo uscire dal governo, evitiamo di porre quella condizione come minaccia, perché non esiste quell’eventualità”. E però viene da ripensare a quello che una vecchia guardia come Raffaele Volpi, leghista di buona scuola democristiana, è andato ripetendo ai suoi colleghi alla Camera: e cioè che peggio che farla davvero, una sciocchezza, c’è il dare l’impressione che la si voglia, o la si possa, continuamente fare. L’inaffidabilità come cifra politica, come modo di stare al mondo.

“Il problema non è Matteo. Lui è decisamente più avanti di tanti che lo circondano”, insiste Giorgetti, come a offrire un’estrema difesa del segretario. E del resto è chi sussurra nelle orecchie del segretario, a partire dal suo consigliere Andrea Paganella, che sperava in una resa dei conti in Via Bellerio: anziché subirlo, insomma, Salvini avrebbe dovuto lanciarlo, un ultimatum, condannare le prese di posizione di chi continuamente, nella fazione dei governisti, gli sabota le manovre tattiche, lo espone al fuoco di alleati e avversari. E insomma la ricetta degli oltranzisti, nostalgici del trucismo che fu, sarebbe quella di pretenderle davvero, le dimissioni di Giorgetti e degli altri ministri, nella convinzione che alla fine Sergio Mattarella non darebbe seguito, neppure stavolta, alle minacce di scioglimento delle Camere, e un nuovo governo tecnico fino alla primavera del 2023, con o senza Draghi, lo metterebbe comunque in piedi.

Una scommessa del tutto speculare a quella che i pretoriani dell’avvocato del popolo sono pronti a rischiare. E semmai qui sta un po’ dell’ansia di ministri e presidenti di regione del Carroccio. In quei contatti, in quella consuetudine ormai di nuovo acquisita tra Salvini e Conte: che si sentono, che si mandano messaggi, che si tengono aggiornati l’uno delle mosse dell’altro, l’uno confidando che magari l’innesco della crisi possa essere l’altro a provocarlo.

La domanda non a caso è stata formulata, lunedì: e dalla risposta che ne seguita è derivata il patto di desistenza da mettere alla prova dei fatti. Se anche Conte rompesse, Salvini non lo seguirebbe; se Salvini non replica il Papeete, Giorgetti continuerà a sostenerlo e a difenderlo. Questo l’accordo sancito in Via Bellerio. Che ha evitato il precipitare degli eventi, ma che ha pure scontentato chi invece lo showdown se lo auspicava.
E non solo dal lato dei salviniani. Perché dietro alla pubblicazione di un documento lanciato da anonimi consiglieri lombardi del Carroccio e da altrettanto ignoti militanti diffuso lunedì sera – un atto d’accusa verso il segretario, la sua gestione centralistica e fallimentare, i suoi recenti insuccessi elettorali – ci sarebbe proprio i colonnelli del giorgettismo. O, almeno, questa è la convinzione di chi sobilla Salvini.   Per dire, insomma, della salubrità del clima, nella Lega.
 

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  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.