(foto Ansa)

a due anni dal 18 marzo 2020

Le bare di Bergamo, la memoria e l'insicurezza lasciata dal Covid. Parla l'ex rettore Remo Pellegrini

Marianna Rizzini

"Pensiamo alla generazione che ha già vissuto con l'incubo strisciante del terrorismo, e ora, dopo due anni di pandemia, si vede davanti la guerra", dice l'ex numero uno dell'università bergamasca nella Giornata nazionale per le vittime del virus

C’è la memoria – che oggi parlava del 18 marzo di due anni fa, il giorno terribile in cui le tv hanno mandato in onda le immagini della lunga fila di camion che portavano via le bare da Bergamo. Quella data ha ispirato la Giornata nazionale per le vittime dell’epidemia di Covid, e sempre oggi il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, nel suo messaggio, ha rievocato lo “smarrimento” iniziale di fronte a una minaccia sconosciuta e la successiva “reazione tenace”. Remo Pellegrini, docente di Diritto amministrativo e membro del Consiglio Universitario nazionale, due anni fa era al lavoro come rettore all’Università di Bergamo, l’ateneo in cui insegna. Di quei giorni, ora che si avvicina la fine dello stato di emergenza, ricorda lo sforzo di far sentire la vicinanza agli studenti colpiti da quella che chiama “la tempesta” che ha spazzato via il mondo per com’era prima. Ma la memoria non basta, dice Pellegrini: “Tre parole a mio avviso dobbiamo tenere a mente in questa fase, dopo questi anni difficili: la memoria è una di queste, come la speranza. Ma non può mancare la parola insicurezza, quella che hanno provato e provano i giovani passati attraverso la Dad e che ora, proprio quando sembrava che un problema fosse risolto, si ritrovano con lo spettro della guerra”.

Il Covid ha cancellato vite, ma anche idee e progetti: “Siamo di fronte a una generazione che si è trovata a vivere la pandemia tra le fine del liceo e l’inizio dell’università. E sono ragazzi che già avevano conosciuto la sensazione di un pericolo strisciante, l’incubo del terrorismo che colpiva anche in città vicine, da Parigi a Strasburgo. Non è un caso – ce lo dicono i dati che arrivano dagli istituti –  che gli sportelli di aiuto psicologico nelle scuole superiori siano frequentatissimi, con prenotazioni da qui a sei mesi”.

Un anno fa Pellegrini, nel corso del secondo lockdown, aveva promesso di fare di tutto per permettere ai ragazzi di tornare in aula almeno 45 giorni a fine anno, per dare simbolicamente un segnale di ripresa in presenza. Ma, racconta, “ho dovuto constatare che l’esperimento è andato malissimo: dopo un anno e più di Dad, i ragazzi hanno disertato le aule. E anche quest’anno, lungo la via della normalizzazione, le aule non si sono riempite come prima. Abbiamo allora il dovere di guardare in faccia il disagio di questi ragazzi che sono stati investiti dalla tempesta Covid dopo aver vissuto gli anni della minaccia terroristica – una minaccia che ha tarpato le ali a sogni che la generazione dei 40-50enni ha invece potuto coltivare: il viaggio, l’Erasmus, l’essere e sentirsi cittadini del mondo. Non ci siamo resi conto, noi che abbiamo potuto sognare, della nostra fortuna. Questi ragazzi vivono sulla pelle il protrarsi dell’insicurezza, ora acuita dal conflitto”.

Un’insicurezza subdola, latente. “Il fatto che gli studenti, ora che potrebbero, non stiano tornando in aula nella stessa percentuale è un sintomo grave. Non possiamo lasciarli soli a pensare di non poter spiccare il volo, privati anche dei riti di passaggio all’età adulta. L’arrivo all’università lo era, ma molti non hanno potuto viverlo come tale”. Tanto più a Bergamo e nei territori martoriati dal virus nel 2020, dice Pellegrini, “oltre a coltivare il ricordo si cercano risposte per il futuro. L’insicurezza è come rimasta addosso a chi si è chiuso in casa, attaccato allo schermo. Ecco, bisogna fare qualcosa per i figli di questa stagione crudele; devono potersi fidare e affidare alla scuola — perché solo conoscendo un giorno potranno scegliere — e agli altri, unico antidoto al pessimismo da cui sono pervasi. Noi che abbiamo potuto scegliere, ora possiamo aiutarli. E in questi tempi iper-collegati, facciamo in modo che la valanga di informazioni non diventi fonte di ulteriore disorientamento. Che conoscenza stiamo dando ai ragazzi? Riflettiamoci come educatori, genitori, cittadini”. 

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  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.