Foto Filippo Attili/Palazzo Chigi/LaPresse  

Draghi, Monti e i lillipuziani

È ciclico: partiti inebetiti chiamano un gigante al governo e lo prendono a pernacchie

Salvatore Merlo

La stizza di Draghi verso i partiti che avevano approvato i provvedimenti in Cdm, salvo poi non votarli in Parlamento. Una scena già vista

Ogni volta che in Italia c’è qualcosa di complicato da gestire, dallo spread al Covid, dalle pensioni al Pnrr, insomma per ognuna delle cicliche difficoltà  di cui vive questo paese di costanti torpori e spasmi improvvisi, ecco che ogni volta i politici si guardano l’un l’altro negli occhi e si chiedono: “E adesso cosa facciamo? Come risolviamo? Ma chiamiamo un marziano, ovviamente! Uno da fuori! Uno bravo sul serio”. Perché evidentemente secondo loro l’unico modo di combinare qualcosa, nella selva delle leggi contraddittorie da loro stessi scritte e nel confronto gladiatorio da loro stessi alimentato, è rimediare la dispensa eccezionale, affidarsi all’uomo forte, insomma acchiappare un gigante sulle spalle del quale appollaiarsi per un po’ caricandolo di aspettative salvifiche totali. Per poi, tuttavia, pian piano, lentamente ma inesorabilmente, prenderlo a pernacchie.  E a pensarci bene il fenomeno è grottesco sin dalle premesse.

 

E’ come se ogni partito dicesse: “Lo so, dalle mie cucine escono solo piatti immondi, ma voi fidatevi lo stesso perché stasera ho fatto venire un cuoco da fuori, uno che se ne intende sul serio, cenerete alla grande”. Arrivato a un tale livello di autosfiducia, qualsiasi ristorante chiuderebbe. Persino i camerieri e la cassiera si vergognerebbero di restarci a lavorare. Ma i partiti no. Loro, con monotona pendolarità, acchiappano un ex commissario europeo come Mario Monti, o un ex presidente della Bce come Mario Draghi, lo invocano, lo applaudono, lo trattano da personalità ultraterrena (“respira”, “sorride”, “è sobrio”, “come è umano lei”) ma poi cominciano a scocciarsi. E allora: “E’ antipatico”, “non ci rispetta”, “fa soltanto decreti”, “dobbiamo difendere il Parlamento”. Quindi iniziano le pernacchie.  Mercoledì notte a Draghi gliele hanno fatte, metaforiche s’intende, alla Camera. E’ la seconda volta, dopo il Quirinale. Quegli stessi partiti che gli avevano approvato i provvedimenti in Cdm, non glieli votavano in Parlamento. Niente di nuovo. Dieci anni fa c’era Dario Franceschini, allora capogruppo del Pd, che superata la febbre dello spread, alla Camera, si alzava in piedi rivolgendosi a Monti per spiegargli che doveva negoziare con i partiti.

 

Ricorda qualcosa? E’ proprio in questo modo  che l’Italia politica del 2011 masticò e risputò via  in sembianze macchiettistiche l’uomo che pure aveva trattato da vivente fatalità dell’italico destino: la polemica canina con Daria Bignardi, i peones di Forza Italia elevati a nemici personali dall’uomo che trattava direttamente con Merkel e Obama... Ora capita pure a Draghi, che ambisce a far dialogare Russia e Ucraina, ma si trova ad avere a che fare con i pensieri compulsivi di un dj di Radio Padania diventato segretario della Lega. E dunque i partiti li desiderano, questi marziani. Prima li chiamano e poi li dileggiano. Verrebbe da pensare che forse li vogliono proprio per poi poterli sporcare, chissà. Sarà infatti un caso, ma anche no, che questi uomini del destino funzionano soprattutto i primi mesi. Ma poi sempre meno. Le grandi riforme di Monti, le uniche, riuscì a farle nel momento più cupo e drammatico, a un passo dal default, con lo spread sul baratro dei seicento punti, quando ogni briglia era ormai travolta dalla tragedia incombente: non nascevano dall’ottimismo e dalla virtù italiane, ma dalla paura e dall’ansia di una casta inebetita. Ecco. Il problema è quando non sono più inebetiti. Draghi ieri ha detto che il governo “è bellissimo”. Ma venerdì sbuffava: “Così non va”. Lui non è Monti, forse, eppure il ritratto di Monti sta lì davanti a lui.  A Palazzo Chigi. Un avvertimento. L’immagine del Gulliver divorato dai lillipuziani. Un apologo sull’Italia che non riesce mai a essere grande, ma spenna le vicende di ciascun protagonista.

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.