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Questa non è una politica per giovani. Resta l'occasione del Pnrr

 Veronica De Romanis

Il futuro delle nuove generazioni è ancora una volta assente dall'agenda economica del governo. Si è parlato molto di pensioni e poco di lavoro, molto di tutele per chi già le ha e poco per chi ne è sprovvisto

“Non fermatevi, non scoraggiatevi, prendetevi il vostro futuro”. Questo, in sintesi, è il messaggio che il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha voluto lasciare alle ragazze e ai ragazzi italiani in occasione del suo discorso di fine anno. L’ultimo del suo mandato. Non è certamente la prima volta che il presidente riporta l’attenzione su di loro. I giovani sono la categoria che sta pagando il prezzo maggiore alla pandemia. Il conto a loro carico, peraltro, era già stato salatissimo durante la precedente crisi, quella finanziaria dello scorso decennio. Eppure, le forze politiche che si sono alternate alla guida del paese hanno fatto ben poco. Una scarsa sensibilità che davvero sorprende se si considera che Mattarella ha iniziato il settennato quando al governo c’era Matteo Renzi, il premier più giovane di sempre, e l’età media alla Camera aveva raggiunto 45,6 anni e al Senato 54,3. Con le elezioni del 2018 è ulteriormente scesa, rispettivamente a 44,3 e a 52,1 anni. Da questa classe politica ci si sarebbe aspettata un’agenda di politica economica con al centro il futuro delle nuove generazioni. Invece, si è parlato molto di pensioni e poco di lavoro; molto di tutele per chi già le ha e poco di opportunità per chi ne è sprovvisto. E, così, l’Italia è restata fanalino di coda per quanto riguarda la percentuale dei 15-29enni privi di un lavoro: 29,2 per cento nel 2019. Peggio di noi fanno solo la Spagna e la Grecia (33,2 e 33,9) che però, negli ultimi sette anni, hanno registrato un calo più sostenuto. 

Miglioramenti significativi dovrebbero arrivare dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). L’esecutivo guidato da Mario Draghi (classe 1947) ha, infatti, destinato diverse risorse al potenziamento dell’occupazione giovanile. In particolare, sono previsti 1,5 miliardi per gli istituti tecnici e 600 milioni per l’alternanza scuola-lavoro. Due strumenti che altrove funzionano: in Germania, ad esempio, la percentuale di giovani disoccupati non supera il 5 per cento. I risultati attesi dal Pnrr sono ambiziosi: a fine 2026, la quota dei giovani occupati dovrebbe crescere di oltre tre punti percentuali, quasi cinque al sud.

 

C’è da chiedersi come mai si è aspettato tanto. Abbiamo – forse – avuto bisogno che ce lo “chiedesse” l’Europa? Merito di quel vincolo esterno che a molti non piace? La verità è che, in questi anni, è mancata una classe politica in grado di interpretare le necessità delle future generazioni. Il Parlamento con il maggior numero di under cinquanta – forse – non ne ha voluto comprendere fino in fondo le difficoltà e le preoccupazioni. Si sono fatti due calcoli di convivenza: gli ultrasessantenni sono più di quattordici milioni, i 18-34enni meno di dieci. Concentrarsi su quest’ultimi è meno redditizio dal punto di vista del consenso. E, così, chi ha avuto responsabilità di governo ha smesso di comportarsi da giovane. Ne è diventavo quasi un nemico. Senza voler generalizzare, proviamo a fare qualche esempio. 

“Il duro lavoro paga”. Questo è l’insegnamento principale che viene dato ai ragazzi. Dalla famiglia prima e dalla scuola poi. Ma, non dalla politica. Basti pensare che il partito di maggioranza relativa, il Movimento 5 stelle, ha vinto grazie allo slogan “uno vale uno”, ossia la negazione dell’equazione “mi impegno, quindi ottengo dei risultati”. Di conseguenza, le Camere si sono riempite di persone prive di conoscenza, esperienza e capacità di valutare i propri limiti. Di recente, diversi pentastellati stanno prendendo le distanze da questo modello. Alcuni lo fanno per pura convenienza (la competenza sta tornando di moda); altri – sperabilmente – per improvviso amore per lo studio e l’approfondimento. Un caso emblematico è quello dell’attuale ministro degli Esteri. Solo qualche anno fa Luigi Di Maio sosteneva che l’Italia dovesse uscire dall’euro: “I vantaggi sono enormi” spiegava. Una volta al governo ha cambiato idea. Lecito, certamente. Ma, simili dietrofront richiederebbero un chiarimento del tipo “mi sono documentato, ho parlato con esperti, ho letto le percentuali di esportazioni del nostro paese nella zona euro ecc…”. E invece, nulla. “Ne ho combinate molte”: questa la spiegazione fornita dal ministro alla festa del Foglio tenutasi a Firenze nel novembre scorso. “Le ho raccontate nel mio libro”. Punto. Questo racconto ha convinto molti commentatori. Un inizio, meglio che niente. La politica, del resto, ha le sue regole. Dare l’esempio, fare un passo indietro o chiedere scusa non è richiesto. Ai giovani, invece, sì: quanti di loro hanno la possibilità di sbagliare senza pagarne le conseguenze? Chi sbaglia in politica non solo non paga ma – spesso – ha la possibilità di perseverare nell’errore. Basti pensare a Quota 100, fortemente voluta dalla Lega. La misura non ha ottenuto i risultati sperati perché ha mandato in pensione sessantaduenni a spese delle future generazioni senza trovare loro un lavoro. A fronte di un simile fallimento e sperpero di risorse pubbliche, tocca eliminarla? Che problema c’è, si fa Quota 102: stesso schema, stesso debito, stesso errore. E, così, ci si assicura la rielezione cioè il posto di lavoro: un privilegio, ancora una volta, non certo dei giovani. L’attuale politica è distante dal loro mondo anche perché non lo guarda con gli stesso occhi.

 

Per essere giovani non basta avere l’età. Bisogna averne lo spirito. Ossia curiosità, capacità di ascoltare e di mettersi in gioco. E, soprattutto, voglia di imparare. A questo proposito vale la pena ricordare che una delle frasi maggiormente utilizzate da Renzi, una volta arrivato a Palazzo Chigi, è stata: “Non prendo lezioni da nessuno”. Giovani inclusi.

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