L'analisi

Napoli batte cassa. Draghi non ci sta. Il piano del governo per le città in dissesto

Non si arriverà al commissario straordinario come fu per Roma. Lo stato si accollerà una parte del debito dei comuni sull'orlo della bancarotta, ma imporrà un piano di rientro

Simone Canettieri e Valerio Valentini

Manfredi minaccia le dimissioni con Palazzo Chigi. Ma per salvare Napoli servirà un disegno più ampio: coinvolte anche Torino e Palermo, e forse Reggio Calabria. Da Palazzo San Giacomo chiedono di fare presto, o il Pnrr è a rischio. Per il Mef servono almeno 500 milioni, e ora non ci sono. Se ne riparla nel 2022

C’è Napoli con le dimissioni sul tavolo del sindaco Gaetano Manfredi. Ma ci sono anche altre città che ballano sull’orlo della bancarotta: Torino e Palermo, per esempio. E Reggio Calabria. Non riescono a chiudere i bilanci. Ma nemmeno a comprare una risma di carta o a procedere con un’assunzione di staff. Questi sindaci, tutti di centrosinistra, stanno mettendo le mani avanti con Palazzo Chigi. Il senso dei ragionamenti caduti sul tavolo del sottosegretario Roberto Garofoli, e indirizzati al premier Mario Draghi, è il seguente: “O il governo ci dà il via libera a una gestione commissariale del debito storico o vi ridiamo le chiavi del municipio”. E arrivederci e grazie. Manfredi continua a ripeterlo. Lo ha spiegato giorni fa anche alla ministra per il Sud Mara Carfagna, incontrata a Palazzo San Giacomo: e più che spiegargliela, l’incombenza del dissesto gliel’ha mostrata. I locali scalcagnati, i consiglieri comunali costretti a portarsi da casa la carta igienica, i bagni al limite della praticabilità. Ma quello che è parso chiaro all’esponente di Forza Italia è evidente a tutti: se ci si incaponisce su un provvedimento fatto su misura per la sola Napoli, la materia diventa politicamente ingestibile. E allora il governo batterà una via più lunga, per arrivare alla meta: un bel provvedimento pensato teoricamente per tutte le 14 città metropolitane, ma a patto che accusino specifiche sofferenze contabili. Ed ecco allora che, oltre al capoluogo partenopeo, nell’elenco dei disastrati finiscono anche Torino e Palermo, con Reggio Calabria ancora in bilico. 

La lamentela del resto stavolta trova uno spunto in più, una inedita arma negoziale: perché queste città, denunciano i loro sindaci, sono messe così male da non poter, al momento, dare seguito al Pnrr. Non hanno il personale e le strutture tecniche per portare a termine i progetti che l’Europa chiede loro in cambio di lauti finanziamenti. Le minacce sembrano però non aver fatto breccia nelle stanze del governo. Draghi infatti non è intenzionato a procedere con il metodo “Salva Roma”, l’intervento promosso dal Cav. nel 2008 quando era premier, nei confronti dell’allora sindaco Alemanno. L’idea dunque di scorporare il vecchio debito dai bilanci correnti degli enti in rosso non è presa in considerazione dal governo. Anche perché costerebbe troppo. In legge di Bilancio, il ministero dell’Economia si è limitato per ora a destinare 300 milioni di euro per il sostegno alle casse dei comuni: di questi, la giunta Manfredi calcola che 120 prenderanno la via di Napoli. Abbastanza per gestire il 2022, sostengono dal governo. Lo stretto indispensabile per non annegare, ribattono sotto il Vesuvio, dove pochi giorni fa hanno consolidato un bilancio che si stimava disastrato con 3,5 miliardi di rosso, e s’è invece rivelato disastroso, con 5 miliardi di passivo.

La situazione è così drammatica che anche ieri, durante l’incontro dei cosiddetti sindaci riformisti organizzato a Roma dal Pd di Enrico Letta, Manfredi è tornato all’attacco. Doveva essere “l’aggiusta Napoli” dopo dieci anni dello scassatore De Magistris, ma si ritrova così. Cu ’na mano ’nnanze e n’ata arete . “Tutti aspettano che il Pnrr risolva i problemi del mondo. Tutti pensano che cambierà la loro vita e il loro lavoro. Ma nel mio comune c’è pochissimo personale e questo problema è di tanti sindaci di Italia. Abbiamo grandi difficoltà di realizzazione”, ha spiegato Manfredi.

Il cui risentimento gira intorno a  una promessa tradita. Quella, cioè, del “Patto per Napoli”: il fantasmatico piano che lo stato maggiore di Pd e M5s mise nero su bianco per convincerlo che candidarsi a sindaco non era necessariamente una follia. E però a Via XX Settembre hanno lasciato intendere che no, quella pretesa di vedersi assegnato un commissario straordinario che si accolli tutte le passività del bilancio del comune per consentire alla giunta di operare con relativa tranquillità non potrà essere esaudita. Si lavora semmai a un progetto più modesto, secondo cui lo stato assorbirà una parte del debito finanziario di Napoli imponendo però a Manfredi un piano di rientro rigoroso, che preveda l’aumento di alcune addizionali sulle imposte locali, forti vincoli sul rinnovo del personale, la cessione a lungo termine di parti del patrimonio pubblico col fine della riqualificazione. Il tutto, peraltro, stando attenti a non indispettire la sempre fiscalissima Corte dei conti. “La situazione è quella che è”,  dice al Foglio Pier Paolo Baretta, assessore al Bilancio di Napoli che fa ormai settimanalmente la spola tra il suo ufficio napoletano e quel Mef dove fino a pochi mesi fa era sottosegretario. “Un eventuale dissesto, che nessuno al momento può escludere, paralizzerebbe l’economia della città che ruota in gran parte intorno alle commesse dell’amministrazione. Un intervento del governo, anche solo parziale, che dia il senso di un’inversione di tendenza, sarebbe davvero una grande iniezione di fiducia”. 
Ma sono soprattutto i tempi, a non coincidere. Manfredi auspicava che l’intervento entrasse già nella Finanziaria in discussione, così da poter pianificare il prossimo anno sulla base di risorse certe. Ma i soldi necessari per soccorrere Napoli, e con lei Torino, Reggio e Palermo, al momento non ci sono: servirebbero almeno 500 milioni, forse un miliardo secondo le stime più generose, e cioè servirebbero più risorse di quelle che di fatto il Parlamento, in sede di conversione, potrà disporre sul disegno di legge di Bilancio. Dunque è più probabile che tutto slitti alla primavera del 2022, quanto meno. Sperando che nel frattempo nessuno si sia dimesso.