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Il Foglio del Weekend

Il mondo di Alessandro Zan

Michele Masneri

Le fughe in Inghilterra, i primi incontri al buio col Televideo, fino agli influencer e alla legge che si chiama col suo nome

E’ un bravo ragazzo veneto che renderebbe molto orgoglioso il suo papà Alessandro Zan, faccia e capelli e maglietta stretta da ragazzo, nome che è quello di una legge accidentata che divide; nome, più che volto, perché la sua faccia si è sempre vista poco, e adesso eccola nell’iPhone, traballante e che casca, ogni tanto, mentre saltella di città in città per presentare il suo libro, “Senza paura” (Piemme), storia di provincia, la sua, che nasce neanche da Mestre ma da Mestrino, “un paese tagliato in due da uno stradone, dodici chilometri da Padova”, dice Zan al Foglio.

Uniche glorie: “le distillerie di grappa, e un campo di calcio dove si allenava anche Maradona, negli anni Ottanta. Perché era talmente lontano da tutto che nessuno lo disturbava”. Lei giocava, a calcio? “Sì, certo, ma in un campetto sotto casa”. E’ un’infanzia molto normale, con un papà ruvido e umorale, rappresentante di commercio, “prima di cosmetici e poi di gioielli”, che gira su una Alfa 164 nera e torna a casa la sera con tutti che aspettano di vedere quale sia questo umore, perché cambia in continuazione e “se gira male tutto è rovinato”, e pare il papà del Male Oscuro di Giuseppe Berto, il carabiniere in pensione e commerciante di cappelli che spaventa la famiglia con la sua cupa infelicità veneta.

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Leghista, questo papà di Zan. Grande appassionato di politica, passione che gli ha trasmesso, e anche il figlio ha votato Lega, in gioventù, “ma a vent’anni era già tutto dimenticato. E comunque era la Lega delle origini. Quella antifascista, anticlericale, non omofoba”. Vabbè, adesso sembra che la Lega fosse il Mondo di Pannunzio. “Ma no, è vero, conteneva persino una cellula Lgbt”. Ma un giorno nella 164 nera fatale, la patriarcato-car, il papà trova un volantino dell’Arcigay locale, Zan junior nega, non è suo, “ma credo che avesse già capito tutto”. C’è la provincia, la provincia degli anni Ottanta e della 164, in televisione c’è la Carrà – “di cui mi regalava i dischi, senza sospettare nulla”, siamo sempre la solita questione del camp italiano, ah, dolce ambiguità,  queste icone familiari e insieme gayssime, alla Renato Zero. “Eh, però Zero è un peccato, poteva essere l’Elton John italiano e invece niente. E’ l’ipocrisia italiana” (ipocrisia è una parola che ricorre spesso nelle parole di Zan junior)

Per restare al suo bildunsgroman, ci sono anche i libri di Tondelli, “letti tutti”, gli anni Ottanta vissuti in diretta, “i primi amori, i primi viaggi in Europa”; in tv “la tribuna politica fin da piccolo, col risultato che a scuola un giorno la prof chiede se qualcuno sapeva i componenti del pentapartito e io ero l’unico”. Ma anche i film generalisti che lo sceneggiatore collettivo infarciva di  “ricchione” e “checca” e “frocione”, madeleine deliziosa oggi per i partigiani della omofobia vintage (“che tristezza che la Rai oggi abbia premiato quei due comici; e non per aver violato il cosiddetto politicamente corretto, che ci starebbe pure, ma per la volgarità gratuita fatta passare come avanguardia”).  E però pure in tv “c’era qualcosa che si muoveva, il  Pozzetto della Patata Bollente (trama:  Bernardo Mambelli è un operaio milanese comunista, soprannominato “il Gandi”, e in una sera di tregenda ricovera a casa l'omosessuale Claudio - Massimo Ranieri - picchiato dai fascisti. Di lì, una serie di equivoci porteranno il Partito e la fidanzata  - Edwige Fenech -  a credere che il Gandi sia diventato gay).

 

L’ingresso in politica di Zan, nei  DS e poi nei suoi derivati sarà un po’ così, feste dell’unità e campetti e incomprensioni, Zan racconta di questo partito ancora legato a schemi ottocenteschi non particolarmente avanzato né interessato ai diritti. Il sindaco Zanonato di Padova, percorso e figura familiare, “stessa età di mio padre, però comunista,  operaista, vecchia scuola, contavano la fabbrica e il partito, e il resto dopo, l’ambiente di cui ero assessore era una roba borghese, come l’omosessualità”. Però poi si ritrova il piccolo Zan appunto assessore, il primo ufficialmente gay, e poi organizzatore del Pride padovano. E ci andrà perfino, Zanonato, ma solo perché convinto dalla moglie Lella. ‘Vai giù, che c’è tutta la città’. Il pride padovano del 2002 si capisce che è più importante di quello nazionale e storico del 2000 per il giovane Zan.  C’è tutto, in scala ridotta: la contrarietà della politica locale, le diverse opzioni; passare scandalosamente sotto la chiesa del Santo, o scegliere la diplomazia? Vincerà la diplomazia, e anche le buone maniere, perché Zan è un bravo ragazzo, ma a sorpresa saranno i frati a fare un passo avanti;  e il vescovo: “a Padova gli omosessuali sono i benvenuti”. Ma era uno che aveva fatto il nunzio apostolico, che aveva girato”. Di mondo, insomma.

 

Anche l’altra sindaca, Giustina Destro, di Forza Italia, che si alterna a Zanonato nella città del Santo, da avversaria feroce diventerà alleata sui diritti. “Credo conti qualcosa che suo figlio ha sposato un uomo”. Ah, l’Italia. Ah, la provincia.  E  il giovedì, finalmente Dynasty, “con una sottotrama molto gay, il figlio del petroliere Blake Carrington, che ammazza il suo compagno”. Entra Alexis, nel primo episodio, cappello a tesa larga, veletta, finalmente gli anni Ottanta. La storia di Alessandro Zan, bravo ragazzo del veneto bianco e della 164 nera, laureato ingegnere delle telecomunicazioni, è anche una autobiografia dei media italiani. Nell’epoca pre-Grindr, nell’Italia analogica in cui pensavi di essere l’unico gay sulla faccia della terra, per incontrarsi “c’era il televideo, quasi ogni canale aveva il suo. Su quello di Videomusic c’era un sistema primordiale di incontri”, dunque via, a incontrare questo giovanotto, ai colli Euganei. “Incontri praticamente al buio, potevi registrare solo la voce”.

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Altre fughe, più lontane; con una colletta tra parenti, “perché non c’erano ancora le low cost”, a fare l’ancora rarissimo Erasmus, a Sunderland, micidiale cittadina industriale nel nord dell’Inghilterra, poverissima, proletaria, che poi sarà capitalina del Brexit  più demente, in quanto luogo col più alto voto per il leave ma pure sede di tutta l’industria automobilistica, la prima a emigrare dopo il voto. E però lì libertà e felicità, “non c’era mio padre, e questo bastava”. E scale ripide, moquette puzzolenti, coinqulini vari, tra cui “un indiano che era destinato già a sposare una decisa dalla famiglia, al suo ritorno in patria, e non voleva, e mi lasciava dei bigliettini”, e forse era un po’ innamorato di lui.

 

Al ritorno, un coming out che coincide con l’entrata in politica. Il manifestino nella 164 era mio. Arcigay, associazionismo, il pride di Padova, il partito. “Mi guardavano come un alieno”. Perché gay? “No, perché non avevo mai fatto politica”. Il Parco Iride, “fuori dal paese, in una frazione che si chiama Vigodarzere, e militanti che cucinano per le feste dell’Unità”, e un’altra figura paterna, o almeno un fratello maggiore, Gianni Meggiolaro, che era nei DS ma era stato anche presidente dell’Arcigay di Padova, ma non aveva avuto mai il coraggio di dichiararsi, e “mi vede come una specie di riscatto”. Per Alessandro Zan, la visibilità è fondamentale, “c’ero io, ero omosessuale, e perché mai avrei dovuto nascondermi?”; il padre col tempo diventa un alleato, sempre senza smancerie, sempre con ritegno lombardo-veneto.  

 

Non lo accompagnerà neanche a Roma, quando viene eletto deputato, nel 2013, al giro di boa dei quarant’anni, e lì è “la grande emozione del lungo tappeto rosso che dalla galleria dei presidenti porta al Transatlantico” (è chiaro che noi nati nei Settanta siamo l’ultima generazione ad aver fatto dating col Televideo, ma anche ad esserci commossi per Montecitorio). Nel frattempo il partito rigido si è fuso con quello in marmo di Carrara della Margherita, e la relazione diviene ancor più complicata. Dica la verità: essere del Pd è più dura che essere omosessuali. Ride. Finisce nel gruppo misto, perché Vendola esce.

 

Nel frattempo, un grande amore con un altro deputato, un certo G., “sedicente eterosessuale, cattolico, coltissimo”. Il nome non lo fa, scherzo io: Gitti? (protagonista di un famoso emendamento “salva Vescovi”) che ammazzò la legge Scalfarotto, pre-Zan)? Ride. “Ma no, cosa dice. E poi, non sono così masochista”. Siamo in tema outing cioè sputtanamento – da non confondere, qui facciamo servizio pubblico, col coming out cioè confessione –  “anche se, se tu voti in un modo e poi ti comporti in un altro, non è corretto, e poi se sei un gay nascosto sei ricattabile”. Zan già è stato criticato per  aver scritto, nel suo libro, che a Mykonos ha trovato un famoso deputato leghista che si baciava con un uomo. Apriti cielo. Tutti indignati. Salvini, esperto di spiagge e di baci,  qui però ha risposto con una battuta sovranista non male: “Non mi interessa chi bacia chi. Mi dispiace solo che fossero a Mykonos: se si fossero baciati a Rapallo sarebbe stato meglio”. “Già, il fatto è che quello andava a Mykonos proprio perché solo  fuori dall’Italia si sentiva libero di essere se stesso”. E però anche l’acqua, e il mood, diciamolo, son meglio alle Cicladi che a Rapallo.

 

In Parlamento, acque comunque limacciosissime. La storia di Zan è anche quella della legge che porta il suo nome, anzi “il nome della mia famiglia”, ultima di una serie di fallimenti: Grillini ci provò nel 2006, la Concia nel 2011, e indietro ancora, la Mancino, anno 1993,  che proibendo le discriminazioni avrebbe dovuto contenere già la parte sull’omofobia, e “Grillini, che in quella battaglia c’era, sostenne che ‘ci dissero che avevamo ragione, ma che non si poteva fare, altrimenti non sarebbe passata”.  E poi , e poi quella che fa più male, la Scalfarotto, affossata, scrive Zan, dalle troppe mediazioni, dagli annacquamenti, ultimo l’emendamento Gitti. “Un grande corso accelerato di politica parlamentare, su come tenere la barra dritta ed evitare che una legge venga annacquata e muoia del suo stesso annacquamento”.

 

Dev’essere per questo timore dell’annacquamento che adesso non fa un passo indietro. Ma è morta anche la legge Zan, deputato Zan? “Non credo proprio”, sobbalza. Però è quel che si dice. Il partito ci crede o fa finta? Su questo giornale Aurelio Mancuso ha scritto che a Letta non gliene può fregar di meno della lotta all’omofobia. “Non credo proprio. E poi basta andare in giro, alle feste dell’unità, per vedere il supporto che abbiamo tra la gente”.  A frenare “la” Zan anche la pestilenza. Nel 2020 i treni si fermano per il Covid. “Scendevo da Padova in macchina, l’autostrada era deserta”. Poteva chiedere un passaggio alla presidente Casellati, col Falcon. Un po’ una Alexis padovana. “Eh”, ride. Avete rapporti? “Pochi, l’ho incontrata qualche volta quando era prefetto di Padova. Naturalmente è contraria alla mia legge. E’ stata anche assistente di diritto canonico, ma poi ha ripiegato sulla politica”.

 

"Senza paura", il libro di Alessandro Zan

 

Intanto papà Zan non c’è più, è morto nel 2016, in tempo per vederlo in Parlamento ma non per veder il “nome della famiglia” assalito dai trucibaldi oppositori nelle audizioni dei mesi scorsi, “una specie di museo degli orrori”. Il peggiore insulto? “Beh, quando accostavano gli omosessuali alla pedofilia o addirittura alla zoofilia”. C’è un’immagine bella nel libro, l’aula di Montecitorio tutta una distesa di lucette non verdi (favorevole), non rosse (contrario) ma blu, la luce del voto segreto. Blu Montecitorio: e intorno il sabba grigio degli emendamenti, un migliaio. L’emendamento anti Zan è ormai un genere letterario. Nel libro parla di “algoritmo Calderoli”, un generatore automatico di emendamenti, anche se “a questo giro ne ha fatti pochi”.  La Lega in totale ne ha prodotti 700, e poi dei singoli piazzati benissimo “tipo la Binetti con 80. Un centinaio Fratelli d’Italia. Italia Viva pochi ma insidiosi”.  

 

Il popolo della famiglia contro questo  ingegnere, timido e anche un po’ ingenuo, che sarebbe il sogno di ogni mamma, veneta e non: la parola “famiglia” del resto è citata 27 volte nel libro, quella “papà”, 28: la sorella lavora in banca, il fratello manager alla Decathlon, tutti e due più piccoli, tutti e due votano Pd. Il fratello “si definisce… liberale di sinistra”. Beh, può capitare. “Ha votato Giannino”. “Un tempo era… renziano. Come lo ero anch’io, del resto” (su renziano cambia la postura, si capisce che siamo in zona cavalli di Frau Blucher): nel libro ci sono parole gelide per l’ex premier, che porta a casa sì il risultato delle unioni civili nel 2016, “ma soprattutto per dimostrare d’essere un premier di un paese moderno”. “Ed è rimasto un po’ convinto che queste leggi vadano votate con la fiducia, sacrificandone un pezzo come allora si sacrificò la stepchild adoption”. Ma adesso, dice Zan, questa è un’iniziativa parlamentare, non del governo, e sembra suggerire soprattutto che Renzi non è più premier. E poi il WhatsApp di 9 parole, “fate bene i conti, Ale, fate bene i conti”, WhatsApp tra “paternalismo e minaccia”, quando Italia Viva ha ritirato l’appoggio alla Zan. E vedremo come andrà a finire.

 

Intanto la parabola cominciata col televideo è finita in Instagram, e uno dei capitoli più interessanti è quando racconta l’approccio al mondo di influencer e celebrità che hanno deciso di sostenerlo. Dallo “Zan” disegnato sulla mano, lanciato da Vanity Fair e rimbalzato sui social, all’appello di Tiziano Ferro, tutto il mondo internettiano è per lui. Tutto è nato per caso. “In televisione non mi chiamavano mai. Anche personaggi che hanno sempre appoggiato i diritti, per esempio Barbara D’Urso, o Maurizio Costanzo, o Floris, non mi invitavano, allora ci siamo dovuti inventare Instagram e i social”. In effetti nella scorpacciata di talk “su” Zan, Zan in persona (ma anche altri omosessuali, non parliamo di persone transgender) venivano più che altro evocati tipo seduta spiritica. E secondo lei perché? Complotti? Omofobia televisiva? “No, è più semplice, è perché, essendo dalla mia parte, cioè, essendo progressisti, pensavano che invitando qualcuno di destra, avrebbero fatto loro il contraddittorio. Dunque io non servivo”.

 

Il buon presentatore progressista che difende lui la causa sostituendosi all’ospite, è un fantastico episodio da Nuovi mostri. “Non è che basta dire love is love e l’amore vince su tutto. Certo, la D’Urso è brava e carina quando dice alla Meloni ‘ti prego, ti prego non ostacolate al Senato la legge contro l’omofobia’, però non basta, se poi quella ribatte dicendo balle e lei giustamente non sa cosa rispondere. Bisogna anche conoscerle le cose nello specifico”. Così, ecco Instagram, ecco le dirette con Fedez. Non ha paura che gli influencer però in qualche modo la usino? Che cavalchino certi argomenti solo perché sono di moda? E magari alla fine avranno avuto più ritorno d’immagine loro, più della  sua legge, che è ancora al palo. “Sono consapevole che le loro agende possono cambiare. Però loro intanto mi hanno aiutato, sono serviti a mobilitare l’opinione pubblica, e per questo li ringrazio”, dice Zan, che è un bravo ragazzo, sì, ma non è mica scemo.

  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).