Draghi e il caos afghano

Gli Usa chiudono l'aeroporto di Kabul. Di Maio e Guerini escludono i corridoi umanitari

I talebani iniziano a irrigidirsi: e così le liste dei familiari (spesso presunti) che i collaboratori delle nostre ambasciate stilano per salvare quante più persone possibile, vengono verificate. L'irruzione nella sede di due ong europee. L'intesa tra Difesa e Viminale e i timori di Lamorgese

Valerio Valentini

“Coi talebani non si tratta”, è la linea del governo. Le nostre forze speciali in Pakistan e Kuwait, pronte a intervenire. Il calvario dei 15.000 funzionari. Ma in prospettiva il flusso di profughi sarà un problema europeo. Palazzo Chigi a contatto con le cancellerie: lo spettro di Erdogan e l'idea tedesca per un'accoglienza "lontana"

Se il problema di prospettiva è stato solo vagamente accennato, nei discorsi che gli uffici diplomatici di Palazzo Chigi hanno avuto coi loro omologhi nelle cancellerie del resto d’Europa, è perché il problema contingente, drammatico nella sua essenzialità - riportare i nostri a casa - s’è fatto subito terribilmente complesso. Al punto che gli americani hanno deciso in serata di chiudere l’aeroporto di Kabul, dove ieri sono rimaste uccise almeno dieci persone, oltre a un marine ferito. Per almeno due giorni, dunque, decolli e atterraggi per far espatriare almeno 15.000 funzionari afghani, non saranno garantiti.

 

Si era iniziato, in effetti, già nei giorni scorsi, quando gli eventi non erano ancora precipitati. Solo che dei 580 collaboratori afghani (con tanto di famigliari al seguito) che avevano lavorato per anni insieme ai nostri militari e al personale della nostra ambasciata, si era riusciti a portarne a Roma solo 288 con degli aerei che partivano da Herat prima di fare scalo a Kabul. Poi, con la capitolazione anticipata del capoluogo occidentale dell’Afghanistan (rispetto a un programma che prevedeva voli di rientro da effettuare con regolarità fino a inizio settembre), è stato chiaro che le operazioni di imbarco dovevano trasferirsi nella capitale: e chi ha potuto raggiungerla, con mezzi propri e spesso di fortuna, ha trovato la salvezza. Per gli altri, per almeno 380 persone, è iniziato il calvario.

   

“L’Italia è al lavoro con i partner europei per una soluzione della crisi, che tuteli i diritti umani, e in particolare quelli delle donne”, ha dichiarato ieri Mario Draghi. E a qualcuno, nel Pd, è parso un accenno alla volontà di istituire dei corridoi umanitari tra Roma e Kabul. E però sia Luigi Di Maio sia Lorenzo Guerini, ministri con cui il premier è costantemente in contatto, ai rispettivi parlamentari hanno spiegato che no, che una simile soluzione è al momento impraticabile. E non solo per motivi di sicurezza, ma anche perché ciò implicherebbe stipulare un accordo coi talebani, e dunque riconoscerli, elevarli a rango di governo ufficiale. Anzi, già garantire dei “corridoi terrestri” che possano consentire ai civili da rimpatriare di raggiungere l’aeroporto di Kabul dal centro della città appare un obiettivo non scontato nelle prossime ore.

 

Si procederà invece così come s’è iniziato: allestendo un ponte aereo che, per forza di cose, sarà improntato alla gestione caotica del momento. Se, ad esempio, il Boeing dell’Aeronautica arrivato a Fiumicino ieri aveva solo 64 persone a bordo (45 italiani, 17 afghani, un britannico e un sudafricano), su una capienza di oltre 200 passeggeri, è stato perché ad attendere oltre, nell’aeroporto di Kabul preso d’assalto e dove resta a coordinare le operazioni solo un nostro compound con un C-130 e pochi militari, si rischiava di non decollare affatto. Tanto più che, se all’inizio i talebani sembravano ben disposti a lasciar rimpatriare i contingenti occidentali, col passare delle ore si sono irrigiditi assai. E così molti nomi di parenti (spesso presunti) che i vari interpreti delle ambasciate europee fornivano ai militari, sono stati in alcuni casi contestati. Alcuni interpreti sono stati intercettati dai miliziani nei ricoveri d’emergenza in cui si sono rifugiati intorno all’aeroporto di Kabul. Almeno due ong europee con personale italiano hanno visto i talebani fare irruzione.

 

E non è a caso, allora, che sia stato disposto l’invio di oltre 120 unità speciali dalla nostra Difesa: militari stanziati ora a Islamabad, in Pakistan, e nella base di Alì Al Salem, in Kuwait, dove sono parcheggiati anche tre C-130 pronti a intervenire in caso di emergenza nella capitale afghana.

 

Ed è anche in virtù di queste enormi difficoltà logistiche che il Viminale ha accettato di buon grado di occuparsi dell’accoglienza e della redistribuzione degli afghani in arrivo: la Difesa gestirà solo la quarantena – in una struttura in Abruzzo, a Roccaraso, e all’ospedale militare del Celio – e poi toccherà all’Interno inserire queste centinaia d’uomini e donne nella rete d’accoglienza canonica. Con un timore, però, legato alla composizione sociale di questi migranti: non si tratta di disperati come nel caso degli africani, ma per lo più di alti quadri della burocrazia afghana. Questo, ovviamente, nell’immediato.

 

Più in prospettiva ci sarà appunto da gestire un flusso di profughi che già da settimane hanno iniziato la fuga, sfruttando la fatiscente frontiera sud del paese, a un ritmo che alla Farnesina si prevede, al momento e con una certa approssimazione, di centinaia di migliaia di persone al mese. Seguiranno per lo più la rotta che dall’Iran dovrebbe portarli in Turchia, rinnovando dunque l’esigenza di rivedere gli accordi con Erdogan, sempre che ad Ankara siano disposti ad accogliere, anche solo per usarli come armi negoziali nei confronti di Bruxelles, nuovi migranti, anziché rendere operativo il muro costruito lungo il confine con l’Iran. Al momento nessuno vuole pensarci, e forse neppure può, nei nostri ministeri. Dove tutti sanno che prima delle elezioni di fine settembre in Germania, sarà improbabile un qualsiasi accordo a livello europeo, né tantomeno un nuovo “momento Merkel” come quello dell’estate del 2015 coi siriani. Anzi, gli uffici diplomatici del governo italiano, da Berlino hanno ricevuto in via preliminare un abbozzo di proposta che va in altra direzione: dirottare i fondi per la cooperazione finora destinati all’Afghanistan ai paesi limitrofi, per convincerli ad accogliere, almeno per un po’, i profughi in fuga dai talebani. E poi? E poi si vedrà.

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  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.