La religione populista

Loris Zanatta

La nostalgia di assoluto, l’afflato millenarista in un mondo che si sta disgregando, l’irrefrenabile pulsione ad assolvere e scomunicare. Il vittimismo e il complottismo. Ecco cosa lega no euro, no Tav, no green pass. E perché è qui per restare

No euro, no global, no Tav, no Tap, no vax, no green pass. Tutti diversi, una grande famiglia. Gridano libertà, onestà, sovranità. Invocano “il popolo” e ce l’hanno con “l’élite”, sono la “gente” il resto “l’establishment”, loro “la piazza” gli altri “il palazzo”. Da qualche parte, ne sono certi, c’è una Trilaterale che complotta, un Bilderberg che tira le fila, una Mont Pelerin Society che pilota, una Troika e i “poteri forti” che governano il mondo. Sorvoliamo su scie chimiche, ripetitori 5G, microchip sottocutanei, terre piatte. Un tango mortifero, “una bambolina che fa no no no”. Se qualcuno credeva di avere scavallato, di avere superato la stagione populista, farà bene ad armarsi di pazienza: ne vedremo ancora delle belle, ne sentiremo ancora delle grosse, le stiamo già udendo. Il populismo è tra noi, è un ingrediente della democrazia, è qui per restare. 

 
So già l’obiezione: basta usare il populismo come epiteto per screditare, delegittimare, criminalizzare! E conosco la reazione, già vedo il petto gonfio: viva il populismo, siamo tutti populisti! Non è la mia intenzione. Rimane il fatto che un filo rosso tiene insieme quell’improbabile galassia, un cemento invisibile ma potente unisce l’odio antieuropeo e l’insofferenza verso la scienza, l’ossessione complottista e l’ecologismo radicale, gli inni alla Pachamama e l’astio verso “il progresso”, il sovranismo e l’idealizzazione del “popolo”, l’anticapitalismo e l’antiliberalismo. E che quel filo rosso, quel cemento, avranno anche mille nomi e altrettante anime ma si esprimono in un concetto: populismo, per l’appunto. Purché tale concetto sia usato in modo chiaro e corretto, non come un volgare randello o una pacchiana medaglia. E si consideri che è un concetto speculare, ossia che ciò che di esso appare a taluni, come me, nefasto, è ciò che per altri ne fa miele per le api.

  
La questione, si badi bene, non è se quelle crociate contro tutto e tutti, contro questo o quello, abbiano o no fondamento. Alcune più, altre meno, certe nessuno. Ma tutte, anche le più balzane, esprimono proteste lecite, interessi legittimi, idee opinabili, finché pacifiche. E’ la democrazia. Più del loro contenuto specifico – l’Europa, la globalizzazione, l’alta velocità, gli ulivi, i vaccini, chi più ne ha più ne metta – ciò che qui importa è il loro schema ideale. E’ in esso che sta il populismo. Mi spiego. Ridotto all’osso, il populismo è nostalgia di assoluto, bisogno di certezza, rimpianto di un popolo puro e incontaminato che assicuri appartenenza, coesione, protezione, identità. Esprime nel mondo secolare ciò che in quello dominato dal sacro s’esprimeva nei miti religiosi, nella purezza del Giardino dell’Eden, nella radiosità della terra promessa.

   
Quei beni, come non notarlo, sono beni rari, per non dire illusori, in una società moderna e complessa fondata su un patto più o meno razionale, di sicuro istituzionale. Ma sono facili da immaginare in una comunità “naturale” basata sull’etnia, la religione, la nazione dove il popolo è uno e omogeneo, in una comunità di fede fondata su simboli, rituali, misteri condivisi. Magari, perché no, sulla ferrea convinzione che quella moneta o quel certificato medico, quel gasdotto o quel tunnel ferroviario siano questione di vita o morte, di essere o non essere, cause intorno alle quali cristallizzare una identità, riconoscersi in una comunità. Tra i primi a cercare di decifrarlo, non a caso, Isaiah Berlin notò che il populismo esprime proprio questo, una vocazione comunitaria. Da ciò il suo afflato manicheo e millenarista, l’irrefrenabile pulsione a pontificare, ad assolvere e scomunicare che rende così pretenziosi e ridicoli personaggi come Grillo o Chávez agli occhi di uno sguardo secolarizzato, ma così magici e ispirati a quelli di un devoto in cerca di fede. Tant’è: quale che sia il nucleo ideale intorno a cui s’articola, quale che sia l’oggetto della sua battaglia, dall’identità nazionale al ponte su uno stretto, al dibattito razionale il populismo oppone lo scontro di civiltà, alla dialettica politica la guerra di religione, la lotta a morte tra onesti e disonesti, misericordiosi e cinici, libertari e tiranni. Bene e Male, insomma. Di nuovo: la politica intesa come religione, una religione politica.

  
Ma non è tutto. Cosa, infatti, unisce idealmente cause tanto disparate? Perché l’Europa matrigna e l’oltraggio alla natura, i mercati e i vaccini, la finanza e la globalizzazione? Perché proprio quelle? Cosa diavolo rappresentano? Opps, l’ho scritto: il diavolo, appunto. Come in un testo magisteriale ha scritto uno che di diavoli se ne intende, papale papale, gli “ultimi duecento anni” hanno causato il “deterioramento del mondo e della vita di gran parte dell’umanità”. Nientemeno. Nulla di buono hanno portato la rivoluzione scientifica e industriale, vaccino incluso suppongo; nulla il liberalismo e il costituzionalismo, nulla il libero commercio e le nuove tecnologie, le libertà individuali e la laicità se non “deterioramento”, disincanto, disillusione, alienazione. La perdizione del mondo coincide guarda caso con lo scardinamento delle antiche certezze religiose, del senso d’assoluto che permeava il mondo sacralizzato, del comunitarismo che rassicurava e proteggeva l’individuo in una rete – una gabbia? – di credenze e consuetudini. Dei beni, insomma, di cui il populismo va disperato in cerca ovunque. Razionalismo e illuminismo, cosmopolitismo e secolarismo sono i mali che da due secoli ammorbano il mondo. La storia è male, è corruzione dello stato di natura. Amen.

  
Di tale apocalittica filosofia della storia, di tale astratta litania che mai si chiede come, concretamente, si viveva un tempo e si vive oggi, i più poveri non meno dei più ricchi, i populismi sono la bassa cucina, la traduzione in lingua volgare. D’altronde è logico: se, come essa recita, la purezza del popolo s’è perduta, la sua unità s’è frammentata, la natura s’è corrotta, la morale s’è smarrita, la cultura s’è inquinata, l’identità s’è spezzata, qualcuno dovrà averne la colpa! Ci dev’essere un capro espiatorio! Ecco così spiegato l’insopportabile vittimismo che trasuda in ogni campagna populista; ecco l’origine del cospirativismo che offre facili bersagli e comodi alibi. L’Europa cosmopolita diventa così l’assassina delle piccole patrie, l’euro il killer dello strapaese affezionato alla lira, i vaccini l’arma con cui la scienza e le multinazionali raderanno al suolo la fede dei nostri avi, le trivelle i mostruosi artefatti che distruggono l’arcadia del chilometro zero, la finanza l’orco crudele che sterminerà i bottegai sotto casa.

    
Lo vediamo di nuovo in questi giorni, quando la complessa discussione sul green pass dovrebbe indurre a un po’ di buon senso, a un confronto duro ma fondato su competenze tecniche e basi scientifiche, dato che l’uscita dalla pandemia e la ripresa economica si suppone siano obiettivi di tutti. Invece no, invece fioccano profezie apocalittiche e slogan preconcetti, sospetti grotteschi e teorie cospirative. Nulla di più lontano da un’arena pubblica in cui ognuno offre il suo contributo alla soluzione di un problema, di un’intelligenza collettiva in azione per emendare errori e ottimizzare risultati, nulla di più vicino a una guerra contro l’infedele, un tiranno in pectore che trama contro la “libertà”. Abbasso il fascismo, gridano i no green pass, il nazismo è alle porte, rincarano i ni vax, Draghi come Hitler, ringhia un deputato dagli schermi tivù agitando Agamben neanche fosse il libretto rosso di Mao. Non fosse penoso, non facessero un po’ paura e molto torto alla nostra intelligenza, sarebbe da spanciarsi dal ridere. A ben vedere, è il classico caso del bue che dà del cornuto all’asino.

 
Ma è ancor più l’ennesimo sintomo di una radicata difficoltà a fare i conti col mondo per quello che è invece che col mondo come vorremmo che fosse, quintessenza della cultura riformista. Cultura agli antipodi del retaggio messianico di cui i populismi sono espressione, che induce a vivere la modernità, bella o brutta che sia, bella e brutta com’è, come colpa  da redimere e peccato da espiare. Dinanzi ai suoi dilemmi e alle sue contraddizioni, alle sue brutture e alle sue opportunità, non si curano di superare gli ostacoli, sciogliere i nodi, aggiustare il tiro, di avanzare proposte sostenibili e misure attuabili. Preferiscono levare il grido al cielo, evocare magie salvifiche, additare il peccatore e come la bambolina fare “no no no”. Fino a quando, investiti di responsabilità di governo, costretti a cercare l’arrosto sotto il fumo e la realtà tra i miti, fingeranno di non conoscere i se stessi del passato. Come Di Maio, per dire. Nelle piazze, intanto, nuovi Messia imboniranno vecchie folle o nuove folle invocheranno vecchi Messia: lo stiamo vedendo.

   
In sintesi: dinanzi alla percezione che il nostro mondo si stia disgregando sotto i colpi di infinite cause – dal mercato all’immigrazione, dai social alla pandemia, dalla perdita della fede alla velocità di internet – il populismo offre una medicina all’apparenza portentosa: promette di proteggere l’identità minacciata, di restaurare la comunità perduta, di salvaguardare la libertà usurpata. Poco importa che la sua guerra alla disgregazione non la arresterà, che la sua ansia redentiva non dia risposte adeguate ai nostri problemi, che la storia sia un flusso caotico e ininterrotto di frammentazioni e ricomposizioni di legami e culture. A renderlo così popolare è la sua offerta di beni che una visione disincantata del mondo, con pudore, evita di offrire: senso e appartenenza, comunità e omogeneità, certezza e assoluto. 

 
Ma non solo il populismo offre una narrazione storica: la condisce di una vera e propria epica; e lo fa semplificando al massimo la realtà, riducendola ai minimi termini del suo schema manicheo che interpreta il mondo come un’eterna lotta tra bene e male combattuta da un noi e un loro. Quale altra epica può competere con questa? Quale approccio disincantato potrà scaldare altrettanto i cuori e mobilitare le passioni? Su questo piano, il populismo non ha rivali. Intriso di immaginario religioso, la sua portentosa forza è la stessa che da secoli alimenta le grandi religioni. A chi guarda al mondo con disincanto non rimane che armarsi di immensa pazienza e, volta a volta, smontare certezze, raffreddare ardori, svelare inganni, sgonfiare petti, ridare cittadinanza alla ragione e alla complessità. 

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