Matteo Renzi ed Emma Bonino in Senato, durante la votazione sul Ddl Zan (LaPresse)

Il Pd tra Renzi e Salvini

Carnevale in Senato. Il ddl Zan diventa un ballo in maschera

Salvatore Merlo

Urla, fischi e pernacchie. In Aula va in scena la politica da social media. Bonino: “Non capisco più Letta”

La Lega cerca di riportare il testo del ddl Zan in commissione. La sinistra invece lo vuole votare in Aula. Matteo Renzi chiede un disarmo e ripete di voler mediare. Alla fine il testo resta in Aula, anche se la discussione potrebbe scavallare l’estate. Ma appena la presidente del Senato, Maria Elisabetta Casellati, annuncia una riunione dei capigruppo per decidere, ecco che tutti iniziano a urlare. “Basta giochetti”, grida Mirabelli del Pd. “I giochetti sono i vostri”, gli risponde Calderoli. Pietro Grasso stringe il microfono come Orlando il corno a Roncisvalle. La saliva che copre come rugiada l’apparecchio. “Qua non ce dialogooooo... Presidenteeeee... Non si può consentireeee...”, Difficile dialogare mentre si alza la voce. E però mentre urlano, i senatori si riprendono con il cellulare. Ciascuno per dimostrare l’infamità dell’altro. Facebook, Twitter, Instagram. Monica Cirinna, del Pd, riprende i leghisti che fischiano: “Ecco il loro atteggiamento costruttivo”.

 

È tutto uno spettacolo. I 5 stelle, che nel 2016 votarono contro la legge sulle unioni civili, indossano la mascherina con i colori del gay pride. C’è la diretta tv. Solo Emma Bonino sta in silenzio. In un angolo. “Io il ddl Zan lo voto così com’è anche se non è scritto bene. Almeno la facciamo finita”, dice. Poi aggiunge: “Fino a un mese fa al Pd non è che gliene fregasse tanto. Perché ora? Perché così?”.

 

Applausi, barriti beduini, sventolio di mascherine, rimbombo di piedi. Nell’aula del Senato, che dovrebbe discutere di una legge complessa, c’è solo il frastuono.  La spaccatura tra guelfi ghibellini di un Parlamento post ideologico che forse ha smarrito le ragioni fondanti della stessa attività legislativa. In una legge conta quello che c’è scritto dentro. La sua coerenza, la sua capacità di tenuta, il suo rigore. “Ma se tutto diventa uno spot, come si fa?”, chiede Emma Bonino, rannicchiata nel cortile del Senato. Attonita. “Qua il merito della questione non interessa a nessuno. Questa è la verità”. Persino molti senatori del Pd, a denti stretti, a taccuini chiusi, lo ammettono: “La legge Zan così com’è è scritta con i piedi. Non solo rischia di non passare a scrutinio segreto. Ma rischia di provocare pericolosi paradossi interpretativi”. Ogni tribunale, ogni procura, potrebbe decidere cos’è reato e cosa no. Ma questo si sa. Lo sanno tutti. Lo hanno spiegato giuristi e professori di diritto.

 

Eppure il Pd questa legge l’ha afferrata, all’improvviso. Così com’è. “La legge è stata credo otto mesi alla Camera, e forse altrettanti al Senato”, ricorda Bonino. “Qualcuno nella segreteria del Pd se n’era occupato? Non mi pare. Ora spingono fortissimamente”. Solo ora. Quando sono emersi problemi di rappresentazione pubblica, allude Bonino. Solo ora la segreteria del Pd ne ha fatto una bandiera. Che rischia però di diventare un sudario. E infatti Bonino scuote la testa. “Mica li capisco più. Si fanno i diritti civili seguendo Fedez. E si fa l’ambientalismo seguendo Greta... Boh”. Parla con amarezza. E aggiunge, forse con un po’ di umana simpatia per il suo ex presidente del Consiglio, per l’uomo che nel 2013 la volle al governo, al ministero degli Esteri: “Un po’ Enrico Letta mi sembra uno di quelli che deve inventare ogni giorno il pezzetto di terra su cui tenersi in piedi”. Non sa che fare. Non sa più che dire. Afferra quello che può, come può.

 

E davvero Palazzo Madama, l’Aula del Senato, sembra una piazza. Chiasso e girotondo. L’Aula riflette gli stessi (mal)umori e gli stessi slogan che qualche metro più in là, fuori dal palazzo, animano le due manifestazioni in corso. Queste, sì, davvero in piazza. Da una parte c’è la Cgil. Dall’altra c’è CasaPound. E sembra la perfetta rappresentazione macchiettistica di un’Italia incapace di uscire dai suoi cliché. I fascisti e gli antifascisti. I neri e i rossi. Fuori tempo massimo. Ma il Parlamento può diventare una piazza? Può il Parlamento prendere le forme di Twitter, di Facebook e di Instagram e farsi organizzazione della demagogia? “Ma che demagogia e demagogia?”, vibra Loredana De Petris, senatrice di Sinistra italiana. “Noi difendiamo i diritti e gli omosessuali. Loro no”. Eppure “loro”, che non sono CasaPound, non dicono questo. Non lo dice nemmeno la Lega, che pure tanti sospetti alimenta. Ma la logica è saltata, un po’ come il linguaggio e la capacità di argomentare. Dentro e fuori del Parlamento. 

 

Matteo Renzi propone da giorni un disarmo ideologico. E lo ripete anche in Aula. A un certo punto, presa la parola, dice che “l’accordo è a portata di mano”. Che si può fare “un patto tra le forze politiche”. Che si può modificare la legge in Senato, migliorarla, “impegnandosi poi ad approvarla in quindici giorni alla Camera”. Ma mentre l’ex segretario del Pd parla, alcuni suoi ex compagni di schieramento gli fanno le pernacchie. Sul serio. Un senatore gli urla: “Ma stai zitto!”, si sente persino in televisione. Sottilmente, ma neanche tanto, lo accusano d’intelligenza con Matteo Salvini. Col nemico. “Vogliono affossare la legge”. Ma è poi vero? Chissà. Tentare un accordo, per avere una legge di civiltà, non sarebbe un obbligo parlamentare e politico? Salvini lo capisce. Forse recita. O forse è sincero. Però intanto in Senato dice di essere disponibile. “Se chi si scrive ‘ddl Zan’ sulla  mano non ascolta chi ha dei dubbi, rischia di cancellare quella scritta per sempre. Perché la legge non passa”, dice. “Togliamo quello che divide. Chi offende e discrimina deve essere punito. Siamo tutti d’accordo. Miglioriamo la legge, e approviamola insieme”. Ancora urla.

 

E la sensazione che il Parlamento non sappia più parlare. Vittima della tattica, dei social, di un eccesso di esposizione comunicativa. “Ma se questa legge non passa io temo disordini”, scuote la testa Paola Binetti. Che certo non è una sostenitrice del testo Zan. “Ci si è spinti troppo in là. C’è esasperazione”.

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.