Cosa non va nel ddl Zan

Giovanni Fiandaca

Confusionaria nel definire la natura e le cause delle discriminazioni, troppo vaga nello specificare cosa siano le “condotte legittime”. Tre motivi giuridici per cui la legge, così com’è, è controproducente

Premetto il mio pregiudiziale sfavore verso l’uso della legge penale quale strumento di promozione e affermazione di nuovi diritti, specie quando la loro fonte scaturisce da ideologie o concezioni morali non da tutti condivise. Da penalista di orientamento liberale, mi piacerebbe dunque che anche il problema dell’omofobia venisse affrontato soprattutto sul terreno dell’evoluzione culturale spontanea, del confronto dialogico e dell’azione educativa. Ma, una volta che si opti – a torto o a ragione – per la soluzione repressiva, che almeno si legiferi con sapienza in modo da contenere i potenziali effetti controproducenti. 


A un attento esame, il testo del ddl Zan così come approvato dalla Camera appare infatti tutt’altro che esente da difetti. Ma sottoporlo a critica, diversamente da quanto sospettano molti dei suoi difensori, non equivale necessariamente a volerlo sabotare. E’ la stessa Corte costituzionale che, ormai da qualche decennio, ammonisce (purtroppo, con scarsi risultati!) i legislatori di turno a scrivere le norme penali con un linguaggio il più chiaro e univoco possibile, in vista di un duplice obiettivo costituzionalmente rilevante: garantire ai cittadini il diritto di percepire in anticipo, cioè prima di agire, il discrimine fra condotte lecite e condotte punibili; nello stesso tempo, consentire ai giudici di identificare senza troppe incertezze i fatti che costituiscono reato.


Prima di evidenziare i punti problematici del disegno di legge, sia però consentito esplicitare un dubbio che riguarda – per così dire – la filosofia di fondo che vi è sottesa. E’ esente da obiezioni la scelta di equiparare, in termini di disvalore etico-sociale e normativo, la transomofobia all’intolleranza razziale, etnica o religiosa, trattandosi in ogni caso di manifestazioni di odio ai danni di soggetti appartenenti a minoranze vulnerabili? A volere sottilizzare, non andrebbe trascurato che le motivazioni culturali e psicologiche di queste diverse forme di avversione non sono coincidenti, per cui non tutte giustificano la medesima reazione censoria: è forse superfluo rilevare che un atteggiamento omofobico può anche derivare da condizioni di disagio o sofferenza psichica (come, ad esempio, una incerta autopercezione sessuale o una omosessualità rimossa), le quali solleciterebbero comprensione e aiuto psicologico piuttosto che severi giudizi di disapprovazione. 


Tutto ciò premesso, entriamo più nel merito delle disposizioni normative in cantiere. 


a) Anche a me sembra eccessiva la dettagliata specificazione delle cause della discriminazione o della violenza, individuate in motivi  rispettivamente fondati “sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere” (nonché, infine, sulla disabilità) (in senso critico cfr. anche l’Amaca di Michele Serra, su Repubblica del 7 maggio 2021). Si tratta invero di distinzioni tutt’altro che chiare a livello di senso comune, e per questo lo stesso ddl si preoccupa all’articolo 1 di fornirne una definizione del significato di ciascuno dei concetti richiamati. L’intento chiarificatore riesce o fallisce? Direi che ci troviamo in presenza di un bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto, dal momento che almeno alcune di queste definizioni mantengono un grado di complessità poco accessibile a quanti non dispongono di una cultura di base medio-alta. Ma si è obiettato, ad esempio  da parte di Vittorio Lingiardi (psichiatra e psicoanalista) e Chiara Saraceno (sociologa), che non bisognerebbe avere paura della complessità, e che comunque il ddl non userebbe i concetti in parola “per fissarli giuridicamente”, né per “entrare in dibattiti filosofici”, bensì semplicemente per fornire “strumenti minimi per identificare condizioni umane che l’esperienza insegna possono essere oggetto di aggressioni, disprezzo e odio immotivati e inaccettabili” (cfr. il loro intervento a quattro mani dal titolo “L’alfabeto del gender”, su Repubblica dell’11 maggio). Con tutto il rispetto per i due autorevoli studiosi, mi viene da replicare “a ognuno il suo mestiere”! Come giurista, rilevo che le definizioni legislative sono predisposte proprio per avere rilevanza giuridica quali parametri di riferimento vincolanti per guidare non solo i giudici, ma prima ancora i cittadini: se così è, una eccessiva complessità può risultare più disorientante che orientante innanzitutto nei confronti di questi ultimi, i quali non vengono appunto posti preventivamente nella condizione di ben comprendere quali siano le condotte vietate. Inoltre, una lunga esperienza penalistica dimostra che una disciplina normativa eccessivamente dettagliata, lungi dal giovare, rischia di dar luogo a complicazioni inutili anche nella valutazione giudiziaria dei casi concreti.


b) Le novità in discussione sono concepite in forma di integrazione aggiuntiva all’art. 604 bis del codice penale, incentrato – nella versione attuale – sull’odio razziale, etnico o religioso. In sintesi, limitando il discorso ai punti essenziali, il ddl propone di estendere la punibilità a chi istiga a commettere o commette, per motivi fondati sul sesso o sul genere ecc., atti di discriminazione (reclusione fino a un anno o multa fino a 6 mila euro), oppure violenza o atti di provocazione alla violenza (reclusione da sei mesi a quattro anni). E’ subito da notare che, a differenza dei casi di odio razziale o religioso, non è menzionata la condotta di mera “propaganda”: verosimilmente, per la preoccupazione di lasciare maggiore spazio a una legittima libertà di pensiero, questa volta risulta punibile soltanto la condotta “istigatrice” di atti discriminatori o violenti (anche se con ciò il problema non è risolto del tutto, perché – come vedremo fra poco – non sempre è facile verificare quando vi sia vera e propria istigazione). 


Tra i concetti fin qui accennati, il più problematico appare quello di “discriminazione”. Dal canto suo, il ddl si astiene dal definirlo; e, d’altra parte, la dottrina giuridica mette in evidenza come il concetto di discriminazione assuma significati e declinazioni differenti a seconda dello specifico campo di materia che viene in rilievo. Questa genericità e polivalenza della relativa nozione solleva un problema di compatibilità col principio costituzionale di sufficiente determinatezza della fattispecie incriminatrice, essendo in definitiva demandato dal legislatore al giudice il compito di stabilire in concreto quando un certo atto sia qualificabile discriminatorio. Per limitarci a un solo esempio problematico: costituirebbe istigazione punibile la promozione di manifestazioni pubbliche volte a esercitare pressioni sulle forze politiche per scongiurare la concessione di benefici economici o sussidi assistenziali anche alle coppie omosessuali?


c) I sostenitori del testo Zan tendono a escludere la possibilità che le sue previsioni interferiscano con la libertà di manifestazione del pensiero, confidando nella espressa clausola di salvataggio prevista nell’articolo 4: “Ai fini della presente legge, sono fatte salve la libera espressione di convincimenti od opinioni nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte, purché non idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti”. Senonché, letta con le lenti del giurista di mestiere, questa clausola appare per un verso pleonastica e, per altro verso, ridondante e poco chiara. Infatti, anche in sua assenza, il diritto costituzionale alla libertà di pensiero e di espressione avrebbe dovuto comunque essere tutelato in base a princìpi già consolidati nel nostro ordinamento. Ma questo articolo 4 sovrabbonda di parole mal assortite, al punto da rischiare addirittura di produrre – paradossalmente – un effetto contrario (cioè di estensione del penalmente rilevante) rispetto a quello perseguito (cioè di restrizione della punibilità). Che vuol dire, in particolare, “condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte”? “Legittime” vanno considerate, queste condotte, in base a quale criterio di riferimento (la normativa costituzionale, una qualche norma extra-penale o, ancora una volta, la mera opinione del giudice nel caso concreto?).


Né appare risolutiva, a ben vedere, la puntualizzazione normativa che deve in ogni caso trattarsi di condotte “non idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti”. Il lettore non digiuno di diritto sa bene che, in proposito, il ddl recepisce il principio giurisprudenziale da tempo elaborato in termini anche più generali, secondo cui una condotta istigatrice punibile, per distinguersi da una legittima manifestazione del pensiero, deve risultare idonea – secondo un giudizio ex ante e in concreto – a provocare il compimento degli atti vietati. Ma deve trattarsi di un pericolo “concreto” in senso stretto o basta, ai fini della punibilità, anche un pericolo “astratto”? Chi conosce la materia, è consapevole almeno di due cose: cioè che  la stessa giurisprudenza al riguardo si mostra oscillante, continuando talvolta persino a propendere per un concetto di pericolo meramente “presunto”; e  che, obiettivamente,  non è facile operare  con ragionevole certezza una simile distinzione, poiché non sempre il giudice è in condizione di apprezzare e tenere nel debito conto l’insieme delle circostanze fattuali capaci di incidere sulla valutazione del tipo e grado di pericolosità delle espressioni o delle condotte in questione.  Ancora una volta, dunque, non poco dipende dalla perizia e dalla sensibilità garantista dei magistrati inquirenti e giudicanti.  


Personalmente, non sono oggi in condizione di prevedere se l’approvazione di una legge anti omofobia possa avere in futuro riscontri applicativi più numerosi e significativi di quelli (nel complesso scarsi) finora registratisi in tema di odio razziale. Ma, tanto più se ciò dovesse accadere, sarebbe opportuno procedere, per un verso, a una semplificazione e, per altro verso, a una maggiore chiarificazione degli elementi essenziali delle nuove condotte punibili. Lo stato di diritto in generale, e la giustizia penale in particolare funzionano al meglio se i messaggi normativi risultano facilmente percepibili dai cittadini; e se gli organi deputati ad applicare le leggi non devono trasformarsi, essi stessi, in co-legislatori per tentare di attribuire una fisionomia più precisa a figure criminose che, sempre più spesso, escono dalla fabbrica legislativa, simili a prodotti semi-lavorati ancora bisognosi di definizione.

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