Il premier passato prossimo

Conte punta "all'assoluta maggioranza", il Pd pensa ancora al campo largo

A Napoli la giornata "papariata" con Luigi Di Maio e Roberto Fico a sostegno di Manfredi

Carmelo Caruso

L'ex premier, a Napoli, ingabbiato dal ricordo, lancia il M5s a vocazione maggioritaria, chiude al Pd con cui l'alleanza non è strutturale. Con Di Maio e Fico solo compari di necessità

Napoli. Hanno finto tutti e tre di essere quello che non sono e hanno anticipato quello che saranno. Se solo li avesse visti Eduardo avrebbe definito questa loro giornata come la “giornata papariata”, la felicità di circostanza che nasconde la menzogna. Giuseppe Conte, Luigi Di Maio e Roberto Fico, ieri, doverosamente insieme, non erano amici, non erano sodali. Sono solo compari di necessità. Ci voleva Napoli, la città della grande sceneggiata, la presentazione della candidatura di Gaetano Manfredi, il galantuomo e professore “sik-sik”, per illuminare questa casamatta 5s “ci sto lavorando”, questo nuovo movimento “destrutturato”, il Conte in versione “assoluto”.

 

Ha detto, ed era rivolto a Enrico Letta, che l’alleanza fra M5s e Pd non è “un’alleanza strutturale” che lui, a differenza dell’altro, coltiva la vocazione maggioritaria e che la sua ambizione è farne infatti “un movimento di assoluta maggioranza”. Ma ha toccato il cielo quando ha risposto sul doppio mandato dei parlamentari M5s, compresi i campioni: “Decido io” salvo correggersi “decidiamo insieme con la comunità” e infine concludere: “Decido sempre io quando dire la verità”. E’ ormai chiaro che gli manca Palazzo Chigi.  Il suo tempo adesso è il “fu”. Voleva essere ascoltato nell’atto del ricordo.


Ai giornalisti, oltre 70 accreditati, si è rivolto come fosse il presidente emerito: “A Emmanuel Macron, un anno fa, ho raccontato cosa fosse  il caffè sospeso. Eravamo a Napoli perché i leader non si ‘peritarono’ del pericolo. Fummo qui malgrado tutto. Mi piace ricordarlo”. Conte è senza dubbio cambiato, ma non ha ancora capito che nessun voto, in qualsiasi piattaforma de-casaleggiata, potrà mai farlo leader perché i leader, soprattutto al sud, sanno che agli appuntamenti o si arriva per primi (ma il primo è stato Fico) o si arriva per ultimi come ha fatto Di Maio che ha perfino aggiunto la sprezzatura finale: a piedi e dalla parte opposta di Conte che è invece arrivato dopo di Fico e prima di Di Maio.

 

Il ministro degli Esteri ha accettato pure, così come il presidente della Camera, di sedersi in platea e di lasciare la scena a Manfredi, Valeria Ciarambino, Gilda Sportiello, le referenti della  “campagna elettorale” ed è rimasto per tutto il tempo in silenzio. Guardava Conte che agitava le mani come un sindacalista al “mi sono fatto latore” (pugno sul tavolo), passando per “ho il dovere di usare un linguaggio di verità (doppio pugno), continuando nella difesa del reddito di cittadinanza e attaccando i “professoroni e quelli della ztl” (palmo teso). Nella foga non si è neppure accorto che stava facendo il suo identikit: a Roma abita in centro e fino a prova contraria è un professore dell’accademia.

 

E faceva quasi tenerezza  vedere come Conte cercasse la folla, come si coccolava le sue “contesse”, un gruppo di donne scalmanate che ieri si è autoproclamato innamorato dell’ex “presidente passato prossimo”. Toglieva i telefoni dalle mani (“Pronto, sono Conte”) e salutava come un mezzo vip, il famoso che si concede: “Buoni, buoni, non dimentico nessuno”. Non poteva sapere che prima del suo arrivo, la stessa donna che si sperticava per lui in adulazioni, diceva che per lei “Di Maio è a’ creatura”, che “rappresenta o’ sud. Un Maradona della politica”. E si riferiva appunto al ministro abile, tanto abile da raccogliere anche la “pacchetta” sulla spalla che Conte gli ha dato al posto del saluto, la “pacchetta” che non era affatto il volersi bene, ma il veleno, il “so cosa pensi di me”. Per opportunità, Di Maio si è seduto pure alla pizzeria da “Michele” dove però ha lasciato a Conte la foto repertorio e la frase tipo: “Il presidente chiede una margherita ben cotta, mi raccomando”.

 

Qualcuno, chi gli sta vicino, gli dovrebbe spiegare che anche questa sua moda di non portare più la cravatta non lo avvicina al popolo ma è come la barba che un certo giorno si decide di non radere perché si è in lotta contro il mondo e perché si crede che il mondo si sia messo di traverso. Di Maio l’ha tolta quando si è dimesso da leader del M5s, ma solo per annodarla meglio da ministro e Fico si veste come se ogni giorno incontrasse un capo di stato estero. Conte non ha avuto il coraggio di dire quello che nel movimento tutti sanno, una banalità. Non ha detto che di loro due non potrà fare a meno come non potrà fare a meno di tutta la segreteria che lui non si porterà in segreteria ma che ormai è la classe dirigente che punta addirittura al “ceto medio”. E non l’ha voluto dire perché appartiene adesso al partito dei nervosi, quegli esseri che adorava Proust.

 

Nella sua personale Recherche era convinto di fare un complimento a Manfredi, un candidato di cui Napoli dovrebbe andare orgogliosa, ma in realtà non faceva altro che parlare, ancora, di lui: “Ti ricordi, caro Gaetano, la sera che ti chiamai? Ti sei preso una notte e un giorno, dopo il tuo iniziale trasalimento...”. Doveva trasalire il Pd quando Conte ha detto: “Dove non c’è alleanza con M5s-Pd non è il caso di stracciarsi le vesti. Pensare di imporre alleanze è ingenuo”. E a pensarci è stata l’unica frase di qualità di un leader quasi-quasi: “Voglio portare il M5s all’assoluta maggioranza”. Era il vecchio “vogliamo tutto” di sinistra e rimane sempre meglio della convinzione del Pd, dell’abbraccio ai riluttanti, la frase disarmo: “Con il M5s c’è un dialogo fecondo”.

 

  • Carmelo Caruso
  • Carmelo Caruso, giornalista a Palermo, Milano, Roma. Ha iniziato a La Repubblica. Oggi lavora al Foglio