(LaPresse)

Cacciare Parisi non basta. Quattro svolte per non perdere Anpal

Paolo Reboani*

L'Italia ha un ente capace di erogare assegni di cassa integrazione e indennità di disoccupazione (l’Inps) ma non una struttura in grado di offrire servizi ai disoccupati e agli inattivi. È tempo di cambiare passo, ecco come

Questo giornale dedica grande attenzione alle politiche attive in Italia e alle vicende dell’Anpal. È sicuramente un titolo meritorio perché esse rappresentano da molti anni, direi quasi da oltre due decenni, il sogno di un disegno riformista delle politiche del lavoro che non si fondi solo su incentivi, ammortizzatori sociali e scivoli pensionistici. Dalla fine del collocamento pubblico (1996), anche in quel caso forzata dal vincolo esterno dell’Europa, tanti sono stati i proclami per una nuova stagione delle politiche attive ma pochi i disegni legislativi compiuti. 

 

La legge Biagi (2002 – governo Berlusconi) è stata il primo organico tentativo ma tutti sappiamo le difficoltà e le ostilità che ha dovuto affrontare, in primis un robusto pregiudizio culturale e una violenta ostilità nei confronti di un disegno riformatore fatto da riformisti che però erano residenti non nel “giusto albergo”. Il Jobs Act (2014 – governo Renzi) che dire se ne voglia, ne è stato la naturale prosecuzione, costruendo una chiara architettura e precisi obiettivi per le politiche attive (costituzione dell’Anpal). Una riforma anch’essa avversata da una parte dalla cultura dei “benaltristi” e dei conservatori di sinistra, perché considerata troppo liberal, dall’altra dal becero populismo del “posto fisso”. 

 

Non è un caso che la forza di maggioranza relativa nel Parlamento abbia fatto di tutto per cancellarla ed abbia improvvidamente unito reddito di cittadinanza e politiche attive, con il risultato di affossare le seconde. La breve storia dell’Anpal è la più chiara rappresentazione di queste vicende, e non tanto per le storie personali del suo presidente, quanto per la mancanza di una chiara visione strategica delle politiche da intraprendere. Ora, la perdita di occupazione rappresenta uno dei fenomeni economici e sociali più drammatici dell’anno più angosciante dal dopoguerra: la pandemia ha fatto perdere circa un milione di occupati. 

 

Le previsioni per il 2021 segnalano certamente una ripresa progressiva dell’occupazione ma è molto difficile fare previsioni attendibili, considerato il blocco dei licenziamenti in atto, le incertezze della ripresa e anche la revisione statistica Istat (capitata non nel momento più opportuno). Alla partenza del Recovery Plan ci presentiamo con un ente capace di erogare assegni di cassa integrazione e indennità di disoccupazione (l’Inps) ma non abbiamo un ente capace di offrire servizi ai disoccupati e agli inattivi (l’Anpal). È tempo di cambiare passo e di ripristinare un sistema efficiente di workfare.

 

Sembrerà un retaggio del passato, di quegli anni ’90 della Terza Via (blairiana) oggi rinnegata a sinistra ed indicata come responsabile del declino elettorale; invece, quella scelta, se perseguita allora non solo da pochi riformisti ma dal paese intero, sarebbe stato il vero passaggio di modernizzazione dell’Italia e noi oggi non saremmo qui a discutere di come fare crescere il tasso di occupazione, come inserire i giovani e le donne nel mercato del lavoro, come fare funzionare i servizi dell’impiego. Il presidente Draghi al vertice di Oporto ha ricordato che l’Italia investirà 6 miliardi per le politiche attive e ha richiamato la necessità di rendere il meccanismo SURE permanente. 

 

Ieri, il ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali ha sottolineato come siano necessarie, per oggi e ancora di più per domani, le politiche attive, finalmente chiarendo che vi sarà discontinuità all’Anpal. Sembra un nuovo promettente inizio. È fondamentale costruire le politiche attive avendo chiaro un obiettivo: tutelare il lavoratore/lavoratrice e non più il posto di lavoro. Per essere subito efficaci non bisogna farsi attrarre da deboli idee del passato ma costruire semplici azioni per il futuro. 

 

Una road-map di 4 azioni

1. Modificare il modello di governance delle politiche attive, ricostituendo una direzione del mercato del lavoro al ministero (con funzioni di analisi, indirizzo e programmazione ma non di gestione) e adottando un modello di agenzia simile a quello delle agenzie fiscali: il che significa rafforzare Anpal come soggetto di attuazione (incorporando Anpal servizi, assumendo una parte dei cosiddetti navigator e semplificando la catena di comando dell’agenzia senza consiglio di amministrazione ma solo con un direttore generale);


2. Stipulare un forte patto con le regioni che preveda una commissione ministero-regioni per l’indirizzo delle politiche e la rete delle agenzie come soggetto esecutore (il che andrebbe anche nella direzione di costruire patti territoriali rafforzati rispetto a quelli già in corso);

3. Strutturare un patto pubblico-privato per la gestione di tutti gli strumenti delle politiche attive senza nessuna preclusione ideologica (è di martedì la notizia che l’agenzia francese omologa – Pole Emploi – e le agenzie interinali hanno siglato un accordo per accelerare i processi di incontro di domanda e offerta);


4. Fare dell’assegno di ricollocazione – semplificato ed automatico – lo strumento principale delle politiche attive, coniugandolo con una forte digitalizzazione dei processi di matching.

 

Attuare questa agenda è possibile anche in tempi estremamente rapidi: occorre solo che il policy-maker le faccia diventare una sua priorità senza farsi attrarre dalle complicazioni della “affamata” burocrazia ministeriale. 

 

La mossa indicata dal ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali va in questa direzione. Una nuova spinta sulle politiche attive serve anche per contribuire alla risoluzione delle crisi industriali in corso, che non possono solo rimanere dipendenti dagli ammortizzatori sociali, ma che devono anche prevedere azioni proattive per la trasformazione delle competenze, la ricerca di nuovi possibilità occupazionali e le operazioni di riconversione produttiva. 

 

Anche in questo caso non si tratta tanto di innovare quanto di “copiare” dagli altri paesi dove le operazioni di riconversione di ampie aree e industrie hanno funzionato quando sono state accompagnate da sane operazioni industriali e da adeguate azioni di ri-formazione del capitale umano. Next Generation EU ci consegna la possibilità di fare riforme e di farle con importanti risorse finanziarie: ma le riforme in Italia devono prescindere da ogni vincolo esterno perché più occupazione, più ricchezza e più crescita sono obiettivi che prescindono dall’Europa. Occorre che vinca la visione riformista, quella delle riforme del medio periodo, non quella del piccolo cabotaggio e neppure l’impeto rivoluzionario della distruzione del tutto e subito. Se così sarà – come sembra – ci potremo finalmente occupare della efficacia delle politiche attive del lavoro.

Paolo Reboani, già presidente e ad di Italia Lavoro

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