Foto Riccardo Antimiani/POOL Ansa/LaPresse

Cosa non c'è nel Def

Paolo Cirino Pomicino

Voler sostenere il nostro debito solo con crescita e un po’ di inflazione lascia perplessi

La meritata stima che circonda Mario Draghi e Daniele Franco, tecnici con forte sensibilità politica, non deve esimerci da porre questioni e interrogativi sul documento di programmazione economica e finanziaria (Def). Venendo subito al punto ricordiamo la pesante eredità raccolta da Draghi e Franco con una caduta del prodotto interno lordo nel 2020 dell’8,9 per cento e un aumento dell’indebitamento di oltre 150 miliardi di euro per interventi di ristoro che hanno ristorato poco e un rapporto debito/pil aumentato di quasi 20 punti raggiungendo il 155,6 per cento. Draghi conosce bene il nostro sistema economico per essere stato per tutti gli anni Novanta direttore generale del Tesoro e dopo qualche tempo governatore della Banca d’Italia. Conosce i nodi che si sono aggrovigliati in questi ultimi 25 anni e che hanno strozzato la nostra economia sino al punto da far crescere il paese dell’0,8 per cento medio annuo per un quarto di secolo collocando l’Italia negli ultimi posti nell’Eurozona per tasso di crescita.

 

Con questo passato e con la sua riconosciuta autorevolezza avremmo sperato qualcosa di più in questo suo primo documento economico-finanziario. Apprezziamo molto il fatto che abbia detto con forza che il tema di fondo resta la crescita ed è altrettanto apprezzabile quando ha detto che il tasso di crescita sarà decisamente superiore a quello degli ultimi decenni anche se questa ultima previsione non è difficile, visto l’arrivo del Recovery Plan, i nuovi investimenti finanziati con parte del nuovo indebitamento e il modesto passato. Quel che avremmo voluto leggere è come il governo pensa di sciogliere nel breve periodo quei nodi che hanno impedito una soddisfacente crescita economica del paese nell’intero arco della Seconda Repubblica. La crescita prevista nel documento finanziario farà recuperare, infatti, nei prossimi tre anni solo ciò che abbiamo perso del prodotto interno lordo nel 2020, un tempo un po’ più lungo di altri nonostante il nostro sistema industriale abbia tenuto più di altri in questi ultimi 18 mesi. E il tempo successivo? Draghi sa che l’industria garantisce poco più di un quarto del prodotto interno lordo del paese mentre tutto il resto resta appannaggio dei servizi, Pubblica amministrazione compresa, e agricoltura. Se la crescita dunque dovrà essere la nostra prima ancora di salvezza come giustamente ha detto Draghi in quale maniera potremo garantirla visti gli ultimi 25 anni? Una domanda che non ha ancora trovato una risposta comprensibile.

 

Da tempo, infine, stiamo richiamando tutti a mettere un freno al vorticoso aumento del debito pubblico. Noi concordiamo con Draghi che oggi il debito è uno strumento essenziale per garantire la tenuta sociale e imprenditoriale del paese e necessario per riavviare la ripresa ma “est modus in rebus”. In 15 mesi il nuovo indebitamento ha superato i 200 miliardi, compreso l’ultimo scostamento di bilancio e tra il Recovery Plan e altri fondi che lo accompagneranno supereremo alla fine i 300 miliardi arrivando così ad avere uno stock del debito pubblico intorno ai 2.800 miliardi di euro. Un debito a rischio di sostenibilità.  Noi siamo convinti che questo paese avrebbe dovuto e potuto ridurre l’indebitamento che peserà non poco sulla prossima ripresa economica per almeno 100 miliardi e con un po’ di coraggio politico ben oltre questo livello. Ne abbiamo parlato più volte dando anche indicazioni ma certo non ci siamo mai impiccati per costume alle nostre idee. Quel che ci ha sconcertato nel precedente governo è che non si è pensato neanche per un momento a uno sforzo nazionale in questa direzione eliminando sciocchezze demagogiche come la patrimoniale, che darebbe poco gettito e sarebbe recessiva. Abbiamo la sensazione che questo silenzio intellettuale e politico sull’argomento continui ancora oggi. Vista la nostra tradizione ultra ventennale la sostenibilità del debito garantita solo dalla crescita e da un po’ di inflazione ci lascia perplessi. Non a caso si parla già di spending review nel 2022 e la solita lotta all’evasione fiscale. Draghi e Franco hanno gli strumenti culturali e il coraggio per innovare le politiche economiche e di finanza pubblica per evitare che tra 3/4 anni l’Italia possa correre il rischio mortale di essere di fatto commissariata o dall’Europa e certamente dai mercati finanziari.