Enrico Letta e Romano Prodi, alcuni dei "grandi offesi" della sinistra (Ansa)

il foglio del weekend

I grandi offesi

Francesco Cundari

Chi se ne va, chi fonda un partito, chi rientra ma senza rancore. I leader della sinistra e la rete di decennali risentimenti e ripicche

Il Grande Offeso è tornato. Perché alla fine, almeno una volta, i Grandi Offesi tornano sempre. Anche Enrico Letta, proprio come il suo modello – il Grande Offeso per definizione: Romano Prodi – appena uscito da Palazzo Chigi aveva preso la via dell’esilio, aveva deciso di non rifare nemmeno la tessera, aveva dichiarato di non volersi più occupare di politica. E adesso eccolo lì. Va detto che Letta, dopo l’uscita di scena, ha messo i suoi pensieri in un libro firmato da lui e dal titolo “Ho imparato”, non “Giorni bugiardi”, come Pier Luigi Bersani, o “Chi ha sbagliato più forte”, come Prodi (ma nel caso del Professore l’elenco completo sarebbe interminabile), senza disseminare interviste, retroscena e saggistica altrui delle sue risentite ricostruzioni. Magari qualche punzecchiatura ogni tanto – è stato pur sempre un dirigente del Pd – ma niente di più.

  

Il parallelo regge dunque fino a un certo punto, e proprio per questo è importante capire fin dove regge e perché oltre quel punto non regge più. Perché Letta in effetti la via dell’esilio l’ha presa sul serio, in senso quasi letterale, essendosene andato a lavorare in Francia. Perché la sua corrente l’ha sciolta davvero, e infatti quelli che la componevano si sono sparpagliati un po’ in tutte le altre: nella corrente ultrapopulista di Michele Emiliano in cui è transitato Francesco Boccia – fino a quel momento candidato tecnocratico-liberista regolarmente battuto da Nichi Vendola alle primarie per la presidenza della Regione Puglia (2005 e 2010), poi ministro e oggi fresco di nomina in segreteria – ma anche nella corrente di maggioranza di Pier Luigi Bersani, e persino in quella di Matteo Renzi, dove sono passate Anna Ascani e Paola De Micheli. Anche se oggi, ovviamente, è come se non si fosse mai mosso nessuno. Ma hanno ragione pure loro: che avrebbero dovuto fare, asserragliarsi nella sede ormai dismessa di Vedrò come Dustin Hoffman in Cane di paglia? 

 

Letta, insomma, di politica aveva davvero smesso di occuparsi. Di certo, non aveva lasciato un esercito acquartierato nella Sierra Maestra, da cui coordinare le operazioni di sabotaggio e guerra psicologica, fino all’insurrezione generale contro l’usurpatore, come aveva fatto, nel 1998, il padre dell’Ulivo. Diciamo che si era ispirato a lui, ma solo fino al punto in cui un’opera d’arte, frutto di sforzo consapevole e ingegno, si può avvicinare, ma non può mai raggiungere la perfezione della natura. E forse è anche per questo che oggi gode di buona stampa ed è rimasto simpatico a tutti, o quasi (l’altro motivo, probabilmente, è che è antipatico a Renzi, che ormai gode di buona stampa solo a est del Giordano).  

 

Se ci fosse tempo, però, bisognerebbe soffermarsi sulle motivazioni psicologiche di un simile atteggiamento per cui se non fai tu il capo allora te ne vai, non prendi nemmeno la tessera, abbandoni la politica (oppure, come Renzi e Bersani, ti fai un altro partito dove nessuno ti rompe le scatole). E sulla ragione profonda per cui in Italia un tale modo di comportarsi sia considerato addirittura un tratto di nobile superiorità e squisito savoir-faire. Ma dodicimilacinquecento caratteri sono molto meno di quelli che sembrano e l’attualità incalza, come incalza il Patriarca dell’Ulivo, padre nobile di tutti i Grandi Offesi d’Italia. 

 

“Il Pd – ha scritto infatti martedì scorso Maria Teresa Meli sul Corriere della Sera – si era attestato sul proporzionale, ed ecco che Letta, memore dei consigli di Romano Prodi (‘Agisci subito, non ti fare intrappolare’) ha detto che a lui quel sistema non piace”. E pazienza se l’intero partito aveva passato mesi a spiegare all’opinione pubblica che dopo il taglio dei parlamentari, senza il proporzionale, era addirittura a rischio la democrazia. Evidentemente il rischio democratico, per il segretario dei democratici, val bene il rischio di offendere Prodi. E c’è da capirlo.

 

Non per niente, all’incirca mezzo secondo dopo la caduta del suo primo governo, nell’ottobre del 1998, Prodi arrivò a fondare un altro partito (i Democratici) solo per il gusto di azzoppare, già alle europee dell’anno successivo, la maggioranza che lo aveva appena defenestrato. E non bastò a fermarlo nemmeno il fatto che nel frattempo quegli ingrati, a cominciare dal nuovo presidente del Consiglio, Massimo D’Alema, lo facessero eleggere presidente della Commissione europea. Che non è proprio come dire presidente del Cnel, con tutto il rispetto.

 

A ripensarci oggi, con il senno del poi, sembra incredibile. Eppure la semplice rilettura dei giornali dell’epoca ci dice che “il Professore”, già ministro dell’Industria nel quarto governo Andreotti e due volte presidente dell’Iri, scelto dai partiti del centrosinistra come uomo della società civile e simbolo di rinnovamento per guidare la coalizione alle elezioni del 1996 – aspettate, non è questa la parte incredibile! – è stato da questi stessi partiti candidato ed eletto due volte alla presidenza del Consiglio (1996-1998 e 2006-2008), e una volta alla presidenza della Commissione europea (1999-2004), e praticamente in ogni altro momento della sua vita, e in ciascuno degli intervalli tra una carica e l’altra, è stato offeso con loro. 

 

Non parliamo di cosa è capitato quando si sono permessi di candidarlo alla presidenza della Repubblica, dopo avere impallinato e brutalmente accantonato Franco Marini (chissà perché i franchi tiratori che abbatterono la sua candidatura non hanno mai avuto nemmeno l’onore di un conteggio ufficiale), tagliando la strada in extremis all’altro candidato davvero in corsa (D’Alema, naturalmente). Certo, alla fine la candidatura non passò, si dice per 101 franchi tiratori (gli stessi prodiani sostengono fondatamente che il vero numero fosse più alto, a conferma di quanto fossero attivamente impegnati nella battaglia). Ma Prodi non è certo il primo dei grandi leader politici traditi dal proprio partito nella corsa al Quirinale. È capitato a tutti i migliori cavalli di razza della Prima Repubblica, e trattandosi della massima carica istituzionale, praticamente senza contrappesi, è pure un bene che sia così, e che nessuno possa con certezza metterci l’ipoteca. E in ogni caso, da Carlo Sforza ad Amintore Fanfani, nessuno dei grandi impallinati nella corsa l’ha mai fatta tanto lunga. Cosa serve dunque per placare la sua ira ventennale contro partiti, apparati e correnti? Cosa devono fare questi poveri dirigenti del Pd, molti dei quali, ai tempi del primo grande affronto, nel 1998, andavano ancora a scuola, se non all’asilo? Immolare una giovenca sull’ara di Bebbio, sgozzare un capretto a largo del Nazareno, compiere sacrifici umani davanti a un grande Ulivo?

 

Anche qui però bisogna essere onesti, perché la tradizione dei Grandi Offesi della sinistra è lunga, ma non proprio ingiustificata. E non tutti hanno avuto in compenso gli onori di Prodi (che se li è sempre meritati, intendiamoci: sia nel senso che le elezioni le ha sempre vinte, sia nel senso che i suoi governi sono sempre colati a picco dopo poco più di un anno). Certo non li ha avuti Achille Occhetto, il primo segretario del Partito democratico della sinistra, che tale avrebbe dovuto essere eletto alla conclusione del XX congresso del Pci (e primo, per l’appunto, del Pds), salvo che nel nuovo Consiglio nazionale – astruserie statutarie figlie della confusione, trappola preparata dai nemici interni, miscuglio di tutte e due le cose insieme – non si raggiunse la maggioranza qualificata necessaria. Raro e forse unico caso nella storia del mondo in cui un partito non riesca a eleggere segretario il suo fondatore. Il quale, ovviamente, non la prese bene. “Adesso cercatevi un altro segretario”, disse alla presidente Giglia Tedesco, che ebbe l’ingrato compito di comunicargli il risultato. Dopo di che se ne risalì in macchina e se ne andò a Capalbio. 

 

Oggi nessun leader della sinistra avrebbe l’ardire di smaltire l’offesa proprio a Capalbio, ma erano altri tempi. In ogni caso ci vollero quattro giorni per riconvocare tutti e metterci una toppa, dopo un penoso viavai di dirigenti, verosimilmente non tutti straziati dal dolore, in processione presso l’eremo del Grande Offeso, a pregarlo di riprendere la guida della sua capricciosa creatura. Non parliamo poi di quanto fosse sensibile il suo acerrimo rivale, e primissimo nella lista dei sospettati, vale a dire – scommetto che l’avete già capito – Massimo D’Alema

 

Quando sarà il suo turno, dopo molte offese e rappacificazioni con il rottamatore di Firenze – l’ultimo affronto sarà la mancata nomina ad Alto rappresentante per la politica estera europea – arriverà a scandire, in una riunione della minoranza guidata da Gianni Cuperlo, all’indomani dell’elezione di Sergio Mattarella al Quirinale: “Io non credo che il segretario del Partito abbia unito il Pd nell’elezione del capo dello Stato per un afflato unitario, diciamo, che sia ripetibile sulla base di appelli. Ha scelto quella strada quando ha capito che su un’altra strada probabilmente avrebbe perso. E onestamente ritengo che non intenda altra logica che questa. Per cui non si annunciano ultimatum: si danno dei colpi, quando necessario, cercando di fare in modo che lascino il segno”. Tutto si può dire, ma non che D’Alema, e molti altri con lui, non abbia tenuto fede a questa limpida dichiarazione d’intenti. Per farla breve, anche i Grandi Offesi hanno le loro ragioni.

 

“Nel lungo tragitto della vita incontrerai tante maschere e pochi volti”, ha detto Letta nel suo discorso all’Assemblea nazionale, una delle poche eterocitazioni (da Pirandello) dopo i molti “ho imparato” con cui ha cercato di spiegare alla platea dei democratici che ormai era un’altra persona e non ce l’aveva con nessuno. Per la precisione, a quegli stessi dirigenti che un minuto dopo lo avrebbero eletto segretario all’unanimità – appena due contrari e una manciata di astenuti su quasi mille votanti – dopo averlo unanimemente voluto a Palazzo Chigi nel 2013, per poi chiedergli garbatamente di sloggiare nel 2014 con un voto della direzione, altrettanto unanime (136 favorevoli, 16 contrari, 2 astenuti). 

 

Può darsi che l’idea di andare in tv, ospite di Fabio Fazio a “Che tempo che fa”, a dichiarare che il proporzionale se lo potevano scordare, poche ore dopo avere tenuto in Assemblea un discorso assai più cauto sul punto – dunque dopo essersi fatto votare, e non prima – sia stato effettivamente un suggerimento di Prodi, come sembra dire il Corriere della sera, o magari di Walter Veltroni (un altro ex segretario dalla memoria lunga), che pochi giorni dopo, ospite di Giovanni Floris a “Di Martedì”, è accorso puntualmente a ribadire il concetto. E può darsi che sia stata semplicemente un’idea di Letta, nata da quello stesso intreccio di convinzioni, sentimenti e risentimenti: l’idea cioè di dover subito far vedere chi comanda, anche con quel filo di scorrettezza e brutalità che in politica, purtroppo, è quasi indispensabile, almeno per chi abbia l’ambizione di sopravvivere, ma che può essere al tempo stesso fonte di infinite sventure, se non si calcolano con attenzione tempi, modi e rapporti di forza. 

 

Il problema è che in politica occorre fare tesoro delle esperienze del passato, ma senza lasciarsi condizionare troppo da formule e schemi di gioco che pure a suo tempo sono apparsi inscalfibili. Perché alla fin fine la più universale e indistruttibile legge della politica dice semplicemente che certe cose funzionano sempre, fino a quando non funzionano più, e basta. In pochi giorni, Letta è riuscito nel capolavoro di spazzare via le mille ambiguità della linea giallorossa, senza provocare strappi e senza suscitare rappresaglie, riposizionando il Pd su una linea razionale e coerente con la partecipazione al governo Draghi. Nelle prossime settimane dovrà però dimostrarsi capace di liberarlo anche dai tanti tic politico-culturali di questi anni, primo tra tutti la trentennale ossessione per riforme istituzionali e sistemi elettorali maggioritari con cui surrogare la mancanza di voti, fino a trasformare il doppio turno di collegio o il premio di maggioranza nella principale bandiera politica dei propri militanti, per poi stupirsi se nei quartieri popolari non si prendono voti.

 

Perché, come dice il saggio, la fissazione è peggio della malattia. E può indurre facilmente in errore anche un leader freddo e riflessivo come Enrico Letta. Con il valido aiuto dei tanti padri nobili che dietro quegli slogan anacronistici appaiono intenzionati a metterlo sotto tutela, con un occhio al Quirinale e l’altro pure. Certo è che se anche il nuovo segretario, come tanti predecessori, si farà imprigionare nella rete dei loro decennali risentimenti e delle loro infinite ripicche, molto più terribili di qualsiasi corrente, dimostrerà di avere imparato poco. Io spero che se la cavi.

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