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Così il M5s sogna di entrare tra i socialisti europei

I buoni uffici di Sassoli, la frenesia di Di Maio. "Dobbiamo contare", dice il ministro degli Esteri. Fotografia di un Movimento confinato nella sua irrilevanza. Ci hanno provato con tutti, e da tutti sono stati respinti. Ora tentano col Pse

Valerio Valentini

David Sassoli ci prova: "Farò di tutto per farvi entrare", dice ai grillini, che a Bruxelles sono sempre più spaccati. Di Maio è tentato di porre la questione agli Stati generali. Ma la scelta potrebbe potrebbe portare alla scissione, o esserne la conseguenza. 

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In fondo sta un po’ nella logica delle cose che, dopo aver fatto il giro delle sette chiese ed essere tornati sempre al punto di partenza, in un gioco dell’oca che li vedeva sempre respinti con più o meno sdegnata fermezza, alla fine i grillini bussassero anche alle porte dei Socialisti europei. Approcci ancora preliminari, negoziazioni tutte ancora da imbastire. E però quando mercoledì sera Luigi Di Maio, nel suo mini-manifesto in vista degli Stati generali ha scritto che bisogna “collocare chiaramente il Movimento in una famiglia europea, per poter essere più incisivi”, in parecchi, a Roma e non solo, si sono chiesti a che punto fossero queste trattative. Del resto, in casa dem si sa che quello di accogliere il grillismo nel salotto dei presentabili di Bruxelles è un vecchio ma tuttora costante cruccio di David Sassoli. Che da mesi rassicura gli esponenti più ragionevoli del M5s dicendo che “farò di tutto per farvi entrare”.

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In fondo sta un po’ nella logica delle cose che, dopo aver fatto il giro delle sette chiese ed essere tornati sempre al punto di partenza, in un gioco dell’oca che li vedeva sempre respinti con più o meno sdegnata fermezza, alla fine i grillini bussassero anche alle porte dei Socialisti europei. Approcci ancora preliminari, negoziazioni tutte ancora da imbastire. E però quando mercoledì sera Luigi Di Maio, nel suo mini-manifesto in vista degli Stati generali ha scritto che bisogna “collocare chiaramente il Movimento in una famiglia europea, per poter essere più incisivi”, in parecchi, a Roma e non solo, si sono chiesti a che punto fossero queste trattative. Del resto, in casa dem si sa che quello di accogliere il grillismo nel salotto dei presentabili di Bruxelles è un vecchio ma tuttora costante cruccio di David Sassoli. Che da mesi rassicura gli esponenti più ragionevoli del M5s dicendo che “farò di tutto per farvi entrare”.

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Uno zelo che ha spinto il presidente del Parlamento di Bruxelles fino al rischio della satira: fino, cioè, a organizzare un dibattito sul futuro dell’Europa conversando amabilmente, col più ufficiale dei patrocini dell’istituzione che dirige, insieme a Beppe Grillo e Gunter Pauli, il fantadivulgatore belga che il comico genovese ha adottato come guru di riferimento, subito propinando anche a Palazzo Chigi le sue teorie scombiccherate su “blue economy” e decrescita felice. Ma se è arrivato a tanto, Sassoli, è anche perché, evidentemente, ai buoni rapporti col M5s ci tiene davvero: forse perché i voti grillini potrebbero tornargli comodi quando, al termine del suo mandato di presidente del Parlamento, dovesse puntare a guidare la costituenda Convenzione sul futuro dell’Unione europea; forse perché il potersi intestare l’addomesticamento del grillismo gli procurerebbe un prestigio da spendersi magari nella sua  scalata che verrà, quella più ambita e scivolosa, verso il Quirinale. Di certo la frequentazione con Fabio Massimo Castaldo, uomo fidato di Di Maio e vicepresidente del Parlamento, aiuta a limare le divergenze di vedute. Specie perché Castaldo, uno che ha iniziato a fare politico come braccio di Paola Taverna (quella che si vantava di aver insultato i dem mica per ridere: “Mica gli ho detto zozzoni. Gli ho detto schifosi, mafiosi, mer..”) , da un po’ di tempo è tutto cerimonioso e accondiscendente, nei confronti del suo presidente. 

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Segnale di un movimento in disperata ricerca del suo centro di gravità e che, affermandosi sul principio che ogni divisione tradizionale era superata, che destra e sinistra erano anticaglie del Novecento mentre loro erano nell’empireo luminoso vagheggiato da Casaleggio, ora annaspa nella sua irrisolta identità politica, condannato nel girone dei reietti: quello dei “non iscritti”. “E’ senz’altro uno spreco che una pattuglia di europarlamentari di un partito che è al governo dell’Italia resti fuori dalle dinamiche che contano”, ammette Paolo De Castro, europarlamentare del Pd, col tono di chi la sorte dei potenziali alleati un poco ce l’ha a cuore. E quanto quell’arte dell’irrilevanza pesi, per i grillini, lo dimostrano i loro inesausti tentativi di farsi accogliere da chiunque, a Bruxelles. C’hanno provato all’inizio coi macroniani di Renew Europe, prima che Di Maio e Dibba, insieme allo stesso Castaldo e alla capo delegazione Tiziana Beghin, pensassero bene d’andare a portare i loro omaggi ai gilet gialli, incitando l’aspirante golpista Chalençon a perseguire nei suoi vaneggi di guerra civile. Poi hanno tentato coi Verdi, che però li rimbalzarono dopo che la tedesca Alexandra Geese s’andò a studiare com’è che funzionava quella strana cosa chiamata Rousseau, e denunciò gli intrecci opachi tra il M5s e gli uffici di Via Morone.  

 

E insomma respinti su ogni fronte, tenuti a distanza dal Ppe, fosse anche solo per esclusione il loro travaglio li porta adesso a chiedere asilo ai socialisti. Brando Benifei, capo delegazione del Pd a Bruxelles, prende tempo. “Cosa sia il M5s in campo europeo non lo si sa ancora. Certo, la loro scelta di sostenere la commissione Von der Leyen, nel luglio 2019, li ha portati in una potenziale area di governo. Ma fino a che non risolveranno certe loro contraddizioni di fondo sarà difficile aprire un dialogo serio”. E basta evocarle, quelle ambiguità, e subito esplodono. L’ultima occasione di scontro, in una pattuglia ormai dilaniata da conflitti personali e politici, divergenze ideali che si mischiano a ripicche e gelosie, è stato il voto di mercoledì sera sulla Pac, il fondo sulla politica agricola in favore del quale hanno votato a favore, insieme a popolari e sovranisti, solo nove dei grillini. Gli altri cinque, la fronda euroscettica capeggiata da Ignazio Corrao e Piernicola Pedicini, ha gridato allo scandalo, comme il faut, e ha rinnovato la sua professione di fanatismo duropurista così in sintonia col sentire di Dibba. Ed è per questo che, come dice Benifei, “qualsiasi confronto serio, con la delegazione del M5s, è rimandata a dopo gli Stati generali”. Insomma, prima si formalizza la cesura tra europeisti e non, e poi se ne riparla.

 

Sennonché il dubbio che sorge è che fuori dal M5s si prenda sul serio quel che invece, dai diretti interessati, viene considerato una mezza pantomima: quello, cioè, dello pseudocongresso di metà novembre. “Non credo che succederà nulla di che”, va ripetendo lo stesso Dibba. Ma se davvero in quella sede Di Maio – ansioso d’altronde d’avviare un tavolo di confronto proprio col Pd in vista delle amministrative del 2021 – ribadirà l’urgenza di accasarsi a Bruxelles, allora una scissione potrebbe diventare non tanto una precondizione per l’ingresso nel gruppo dei socialisti, ma semmai la conseguenza.

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