Sergio Mattarella (foto LaPresse)

La pandemia alla prova dei social

Covid e comunicazione politica. Chi ha twittato meglio durante il lockdown?

Carmelo Caruso

Il nuovo libro di Gianluca Comin e Lelio Alfonso, i due esperti danno le pagelle a premier e ministri. Il più bravo di tutti? Mattarella. Quando il poco è meglio

Il più bravo è stato Sergio Mattarella che ha parlato poco ma parlato bene. Ci ha tolto il virus dalla testa, il nostro vero terzo polmone. Non ha fermato il contagio ma ci ha restituito il sorriso che non è mai un algoritmo, un tweet indovinato, ma lo speciale incrocio fra dolcezza e severità: fare i seri senza prendersi sul serio.

 

“Giovanni, anche io non vado dal barbiere…” è stato lo strepitoso fuori onda che umanizza l’istituzione che non è polverosa anche quando è taciturna. C’è più comunicazione nella zazzera del presidente che nelle macchine social, quello zoo di specialisti che cavalcano la “Bestia” (si chiama così il software spara-commenti di Matteo Salvini). Diciamo la verità - lo ricordano Gianluca Comin e Lelio Alfonso, nel loro testo (ma quanto è utile!) #Zona Rossa. Il Covid-19 tra infodemia e comunicazione” (Guerini e Associati) - non servono gli agguati social, le conferenze da “ora più buia”. Se anziché diciotto volte (dal 30 gennaio al 4 maggio) il nostro premier si fosse presentato alle telecamere un po’ meno, è probabile che il suo indice di gradimento sarebbe oggi ancora più alto di quanto è.

 

Comin e Alfonso che in Italia, giustamente, sono ritenuti gli “antichi maestri” della comunicazione istituzionale, sapienti di un genere che si è corrotto, non rimproverano il premier di democratura (che sciocchezza!), ma gli spiegano quali sono le insidie quando si decide di presentarsi come “voce della nazione” e quanto sia pericoloso, ed effimero, costruire il consenso attraverso i like. Sia Comin che Alfonso, in questo saggio appena arrivato in libreria, promuovono il governo e la sua comunicazione che non è stata e non è immune da errori. E però, cosa volete che sia di fronte a quella di Jair Bolsonaro che ha negato il Covid (sappiamo come è finita) o di Boris Johnson (la terapia intensiva gli ha fatto cambiare idea sull’immunità di gregge) o di quel mattacchione di Donald Trump che fino a pochi mesi fa era sicuro di aver trovato il vaccino con “punture di amuchina”. Insomma, se in Italia errori ci sono stati, e ce ne sono stati, è pure vero che, secondo gli autori di #Zona Rossa (l’hastag del titolo è già un capitolo), la pandemia ha avuto come effetto positivo il ritorno degli esperti in medicina che erano inseguiti dai no vax e da tutti gli altri mattoidi fai da te.

 

È tornato anche il “parlare chiaro”, meglio dire, la necessità del parlare chiaro che è vecchia battaglia di Sabino Cassese, amico del Foglio, altra sentinella in queste spaventose settimane. Tra le novità, secondo Alfonso e Comin, ci sono le parole, parole che si sono imposte e che sono destinate a entrare per sempre nel nostro dizionario. Pensiamo a “lockdown”, “task force”, “droplet”. Un discorso a parte lo merita invece “zona rossa” che, scrivono gli autori, in Italia rimanda al pomeriggio maledetto del G8 di Genova. Non ha nulla in comune quella zona rossa con quella di Codogno se non la devastazione. Per Alfonso e Comin sono tutte sillabe che andrebbero usate con cura perché come i virus si espandono.

 

È questa la tesi del libro che precisa cosa si intenda per infodemia, altra espressione che come tutte le espressioni di successo rischia l’abuso. Chi vigilerà sull’infodemia dell’infodemia? È stato David Rothkopf, politologo e ceo di Intellibridge Corporation, in un articolo sulla Sars, era 11 maggio 2003, a introdurlo per primo. Non è altro che la pericolosa mareggiata di “fatti mescolati alla paura e alle speculazioni”. Si può lasciare la comunicazione agli stregoni? Come si capisce, il libro è tanti altri libri perché indaga sulla mala-informazione che è e che sarà. Youtube ha, ad esempio, eliminato i contenuti ma non ha rimosso quei video che ipotizzavano una diffusione del virus legata all’espansione della rete 5g. Gli effetti si sono visti in piazza, a Roma, con i gilet arancioni, un bus di scalmanati che urlavano: “Il virus non è altro che un’invenzione dei giornali”.

 

Comin e Alfonso hanno fatto i conti. In pochi mesi i giornali, notano i due, hanno prodotto 700 mila contenuti riguardanti il coronavirus. Protagonista è stata la televisione. Purtroppo non sempre l’informazione è stata informazione. “Con la pandemia è cresciuta la disinformazione soprattutto nella fase uno” si legge in #Zona Rossa. Immunizzare dunque la disinformazione è diventato altrettanto importante quanto immunizzarci dal virus. Insomma, servirebbe forse un dpcm, ma seguendo le linee guida di questa strepitosa coppia che non può, a questo punto, non essere ricevuta a Palazzo Chigi da Rocco Casalino. Un dpcm per spiegare che quando si comunica la lezione rimane sempre una: poco è meglio. Occhio alle dirette social, caro presidente …