Giuliano Amato (foto LaPresse)

“E ora il governo collabori con l'opposizione”. Parla Amato

Claudio Cerasa

“Il Quirinale del futuro? Sarà europeista. E quando arriverà l’appuntamento ci potrà essere spazio per le nuove generazioni”

Lo dice d’un fiato Giuliano Amato, ex presidente del Consiglio, attuale membro della Corte costituzionale, ma lo dice offrendo un messaggio importante. Incoraggiante. Persino ottimista. “Basta con questa ondata di pessimismo. Voglio provare, se mi consente, a essere ottimista e a ragionare sul futuro tentando di capire non cosa potrebbe andare per il verso sbagliato ma, al contrario, cosa potrebbe andare per il verso giusto”. E’ dura, presidente Amato, ma proviamo. “Potremmo iniziare dall’Europa, per esempio, e potremmo dire che rispetto a dodici anni fa, quando la crisi economica divise l’Europa facendo emergere alcuni suoi egoismi, oggi l’Europa si è ritrovata in una condizione del tutto diversa. E in questa condizione, la crisi economica che è stata generata dall’arrivo del coronavirus ha fatto emergere pochi egoismi e molta solidarietà”. Solidarietà necessaria. Ma sufficiente? “C’è sempre qualcosa che si può fare meglio, e sono molte le lacrime amare di coccodrillo che l’Europa potrebbe versare rispetto ai molti errori commessi in questi anni, ma oggi bisogna essere orgogliosi. Si diceva, tempo fa, quando sembrava fosse possibile ritrovarci di fronte a una crisi dell’euro, che l’Europa era fragile, vulnerabile, impreparata ad affrontare gli choc esterni. Oggi, di fronte a un evento catastrofico, l’Europa ha mostrato solidità, tenacia, fantasia e ha messo in circolo anche un anticorpo utile per proteggersi da tutti coloro che in questi anni hanno soffiato sulle sue contraddizioni. L’Europa, lo sta già facendo con il fondo contro la disoccupazione, Sure, lo farà anche con il Recovery fund, sta creando debito comune. E anche se qualcuno finge di non vedere questo fenomeno, condividere i rischi significa aver creato qualcosa persino di più potente di una nuova dichiarazione di Schuman”.

 

E’ così ottimista da pensare che l’antieuropeismo verrà visto sempre di più come una minaccia all’interesse nazionale dei paesi sovrani? “Penso che stia succedendo qualcosa del genere. E penso che tutti stiano iniziando a capire, trovandoci oggi di fronte a un dramma planetario, che in presenza di grandi problemi essere uniti, compatti e solidali è infinitamente più importante che essere divisi e isolati. I grandi problemi si risolvono insieme, non ognuno per conto suo, e penso che anche l’Italia, a poco a poco, capirà che i veri difensori della sovranità dei popoli sono coloro che si trovano dalla parte dell’Europa, e non coloro che la vogliono indebolire. E paradossalmente, penso che questo sentimento sia stato favorito da chi, in questi anni, l’Europa ha provato a indebolirla”. Chi? “Penso a Donald Trump, ovviamente, ma penso anche alla Gran Bretagna. Trump ha cercato in tutti i modi di indebolire l’Europa e lo stesso ha cercato di fare la Gran Bretagna uscendo dell’Unione europea. Quattro anni dopo possiamo dire che è successo l’opposto di quello che si poteva credere: l’Europa, piuttosto che indebolirsi, ha capito che per avere futuro avrebbe dovuto contare su stessa. E per il momento chi la voleva indebolire, involontariamente, non ha fatto altro che rafforzarla”. L’Europa c’è. La solidarietà, frugali a parte, non manca. Gli strumenti ci sono. Ma, insistiamo, fingendo di non essere anche noi ottimisti sul futuro, cosa possiamo pensare dei paesi che pur avendo a disposizione strumenti utili e competitivi e convenienti scelgono di non usarli. “Parla del Mes?”. Parliamo del Mes. “Non mi faccia parlare di politica”. E allora parliamo del Mes. “E allora credo che la sorprenderò”. In che senso? “Nel senso che il Mes senza condizionalità, in una prima fase, quando è stato rivisto, le condizionalità ancora ce le aveva, e in modo sorprendente alcuni degli articoli corretti non erano stati del tutto corretti. In una prima fase. Poi per fortuna le cose sono cambiate”. 

 

E sono cambiate a tal punto, presidente, che se dovessimo raccogliere gli stessi 36 miliardi di euro sul mercato, che ci spetterebbero con il Mes dedicato alle spese sanitarie, l’Italia dovrebbe sostenere, nei prossimi decenni, una spesa per interessi aggiuntiva pari a quasi 6 miliardi. E senza condizionalità. “Ma poi, se posso, se penso agli altri strumenti offerti dall’Europa, che problemi ci dovrebbero essere con le condizionalità? Voglio dire: davvero qualcuno pensa che i soldi erogati per raggiungere alcuni obiettivi possono essere erogati a prescindere dagli obiettivi? E davvero qualcuno pensa, per dire, che i soldi che andrebbero investiti sul futuro possano essere investiti solo per il presente, magari per tagliare per qualche anno le tasse?”. E davvero può essere considerato uno scandalo immaginare e pensare che l’economia italiana possa andare, nei prossimi mesi, meglio del previsto? “Anche qui, non sono troppo pessimista. E’ ovvio: in economia ci saranno piante che purtroppo non cresceranno più. Ma se non ci sarà una ripresa dei contagi in autunno tale da doverci costringere tutti di nuovo a casa l’economia sono convinto che potrebbe stupirci in positivo. Pensiamo al turismo. Si fanno molti calcoli spaventosi a causa dei mancati incassi che registrerà il settore nei prossimi mesi dai turisti stranieri. Ma ancora non sappiamo quanto saranno i benefici che verranno portati al paese dai nostri connazionali che in passato programmavano vacanze all’estero e che oggi invece le programmano in Italia. Per essere chiari. Io vedo un’economia più mezza zoppa che zoppa. Temo, soprattutto, per i settori con grande vocazione all’export, che nella crisi dei vecchi paesi emergenti, e non solo loro, potrebbero incontrare grandi difficoltà. Ma se c’è qualcosa che temo, dentro di me, è un fatto che in pochi sembrano voler ricordare: quando una pandemia genera una crisi economica le conseguenze di questo fenomeno possono essere imprevedibili. Come successe ai tempi della Spagnola”.

 

Anche lei con la Spagnola? “Non dico che l’andamento di questa malattia possa essere simile all’altra malattia. Dico però che quando la Spagnola si andò a diffondere in Europa contribuì a destabilizzare il quadro politico. E penso di non essere l’unico a ricordare cosa successe subito dopo il 1920 in Europa…”. E visto anche il pericolo, per fortuna remoto, che lei evoca, non pensa che mai come oggi il compito di una classe dirigente vera dovrebbe essere non solo ricordare al governo e all’Europa ciò di cui ha bisogno ma anche ricordare che in una fase in cui tutto cambia a cambiare deve essere anche la classe dirigente. “Dico che una classe dirigente immersa nel presentismo è una classe dirigente destinata a essere dannosa per il paese. E dico inoltre, ragionando sul nostro tessuto economico, che chi oggi guida gli imprenditori avrebbe forse il dovere di guidare una riscossa civile, indicare una nuova direzione e spiegare in che modo chi è classe dirigente può iniziare a indicare una rotta all’Italia. Il mondo sta cambiando, a una velocità mostruosa, e in un mondo che cambia bisognerebbe avere il coraggio di prendersi alcune responsabilità. Come per esempio una responsabilità potrebbe essere quella di essere impietosi con noi stessi. Pensiamo per esempio allo smart working. E’ davvero così difficile dire che il mondo del lavoro deve cambiare se stesso? E’ davvero così difficile capire che con un lavoro che diventa più ibrido è necessario che anche le aziende non si limitino a chiedere sussidi ma cerchino di cambiare il modo in cui lavorano i propri impiegati? Ed è davvero così difficile riconoscere che come ha saggiamente detto Pietro Ichino per molte pubbliche amministrazioni lo smart working non ha coinciso con un lavoro più snello ma ha coinciso con un lavoro semplicemente meno efficiente?”.

 

Amato fa una pausa e aggiunge un altro tassello al tema dell’essere impietosi. “Ma se parliamo di classe dirigente, e del dovere di chi guida il paese di fare squadra nei momenti di difficoltà, dobbiamo parlare anche di altro. E dobbiamo parlare di un altro tipo di lavoro in comune. Anzi, se mi è concesso, di un altro tipo di clima comune”. Amato si spiega meglio. “Penso che la classe politica dovrebbe mettere in campo una maggiore comunità di intenti. Dico ancora meglio: una comune responsabilità. Non si tratta di fare ragionamenti politici, ma si tratta di fare ragionamenti istituzionali. E’ il momento della collaborazione. Ma la collaborazione, in casi straordinari come questi, andrebbe ricercata più da chi governa che da chi si trova all’opposizione. E ho l’impressione, purtroppo, che il modo in cui viene utilizzato il Parlamento in questa fase da parte di chi governa non aiuti questo tipo di processo e questo tipo di intendimento. Voglio dire: negli anni Cinquanta riuscirono a trovare un modo per collaborare comunisti e democristiani, vuole dire che non sia possibile farlo oggi? Faccio fatica a crederci. E mi auguro, se mi è concessa una battuta, che con il decreto semplificazioni non arrivi anche una semplificazione eccessiva del ruolo del Parlamento. Lo dico senza spirito polemico, ma lo dico con il massimo della passione: le intese istituzionali si trovano in Parlamento e per creare intese istituzionali non basta dare alle opposizioni diritto di tribuna; non fu così negli anni Cinquanta”.

 

E rispetto alle intese istituzionali del futuro, una domanda a Giuliano Amato è d’obbligo: si può essere ottimisti relativamente alla nomina del prossimo capo dello stato? Giuliano Amato dice di sì. Dice che “in questi due anni è capitato diverse volte di vedere i populismi assaliti dalla realtà, cosa di cui l’Italia dovrebbe essere tutto sommato contenta e dovrebbe guardare con soddisfazione a quello che un tempo avremmo chiamato lo stellone d’Italia”. Dice questo e poi Amato aggiunge un altro passaggio e dice di essere convinto “che anche il prossimo settennato italiano, a partire dal 2022, sarà un settennato all’insegna dell’europeismo”. “Lo dico e lo penso con convinzione. E penso che quando arriverà l’appuntamento ci potrà essere spazio anche per le nuove generazioni, la cui formazione le ha rese non meno europeiste della mia generazione, quella dei figli, ormai vecchi, dei padri fondatori. E penso che l’Italia avrà la forza di trovare anche nuove energie capaci di far pesare come si deve il nostro paese nel mondo. Ho già detto di essere ottimista?”.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.