Alessandro Di Battista e Matteo Salvini (foto LaPresse)

C'è un po' di Di Battista (e Salvini) in tutti noi che iniziamo le cose senza finirle mai

Andrea Minuz

Dibba e il Truce come Sordi e Gassman nella Grande guerra. Destini uniti, for ever

Il sogno del momento è il car sharing di stato. Una “piattaforma nazionale per la condivisione delle auto a cui sto lavorando da tempo”, dice Alessandro Di Battista. Il gerundio, si sa, è il verbo fondante del pensiero dibattistico. Dibba sta sempre “progettando”, “immaginando”, “lavorando-a”. E’ un retaggio della cultura assembleare anni Settanta proiettato nel fast-thinking dei manuali di self-help, tipo “Diventa leader di te stesso” (o in alternativa del M5s). “Del momento”, invece, significa l’altro ieri. Perché già una settimana prima l’impegno era rivolto alla creazione di “una task force con duecentomila giovani che si dedichino alla tutela del territorio”. Un’idea presentata come “Servizio ambientale” (retribuito), la chiave di volta del nostro New Deal ecologista. 

 

Come ha ammesso egli stesso è un progetto che “ho copiato da Roosevelt” (non “mi sono ispirato a”, ma “copiato”, termine che accende subito una più ampia identificazione collettiva). Non è chiara invece la fonte del piano di nazionalizzazione sudamericana del car sharing: “Un obiettivo ambizioso che punta a sostituire tutte le auto private con le auto pubbliche”. Tutte. Se non gli riesce, mandiamo Dibba a dirigere Car2Go, come la Andreatta a Netflix. Sarebbe pur sempre un’uscita in grande stile da un Movimento in cui si riconosce sempre meno (e viceversa). Perché non è vero che Di Battista è “l’altra anima del M5s” (da un lato, Di Maio, ala impiegatizia, dall’altro, Dibba, er “Che Guevara” del Dams). Casomai, assomiglia sempre di più a una specie di versione boliviana di Salvini. E insieme, in effetti, sono perfetti. Siamo dentro a uno schema collaudato della commedia all’italiana, il romano e il milanese, entrambi dal curriculum incerto o fantasioso, diversamente fancazzisti, due variazioni antitetiche e speculari sul tema del cialtronismo nazionale: Dibba e Salvini come Sordi e Gassman nella “Grande guerra” di Monicelli (che formidabile remake sarebbe). Poliedrico come un artista rinascimentale, cooperante in Guatemala, viaggiatore seriale à la Bruce Chatwin, esperto di microcredito, di diritto all’alimentazione, di ambientalismo, di processi di desertificazione, regista di documentari scomodi, editor di Fazi senza un titolo in catalogo, falegname a Viterbo, scrittore (quattro libri in cinque anni, manca ancora quello su Bibbiano più volte annunciato). C’è un po’ di Dibba in tutti noi che iniziamo le cose senza finirle mai, che ci improvvisiamo, ci immergiamo nello studio matto e disperatissimo di video-tutorial su YouTube e il giorno dopo ci autoproclamiamo economisti o virologi, che ci gettiamo a capofitto nel modellismo e nel bricolage e nei corsi di “pianificazione e riuso urbano”, e due settimane dopo molliamo tutto.

 

Solo che lui vola più alto. Dibba ormai sulle orme di Benjamin Franklin più che di Roosevelt. Anche per questo, ogni suo ritorno è una gran festa per tutti i talk-show. Dibba è il romanzo di formazione eternamente incompiuto del Movimento, il personaggio che gli garantisce il radicamento a un’idea di “purezza” permanente. Ma è anche l’archetipo della mitomania italiana contemporanea, l’anello mancante tra “Amici” di Maria De Filippi (Dibba passò la prima selezione, poi fu scartato) e la guerra al narcotraffico mondiale. Dibba un po’ Saviano e un po’ Manuel Fantoni racconta qualcosa dell’Italia e degli italiani che va ben al di là della lotta intestina per il comando del Movimento. “La mia idea prima era viaggiare, stare lontano dall’Italia”, diceva in una delle prime interviste da leader del M5s. “Giravo il mondo con la maglietta ‘Io non ho votato Berlusconi’ in dieci lingue diverse. Poi, a un certo punto, ho sentito una sorta di gong, di chiamata a fare qualcosa. Ho deciso di tornare”. Come nelle grandi saghe popolari, come in “Star Wars”, come nell’universo Marvel, c’è sempre il momento fatale della chiamata. Solo che per Dibba si ripete in continuazione. Ogni volta una nuova chiamata. Ogni volta verso una nuova avventura.

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