Il ponte di Conte

Valerio Valentini

Il premier si prepara a cavalcare la bestia delle grandi opere. L’eterno ritorno del ponte di Messina

Roma. Dicono che perfino l’idea del ponte sullo Stretto di Messina, lo abbia colto se non favorevole, quanto meno non contrario a priori. E del resto Giuseppe Conte sa bene che quella delle grandi opere è una bestia che, se lui non cavalca, rischia di travolgerlo: se perfino il prudente Dario Franceschini ha benedetto l’idea renziana di collegare la Sicilia e la Calabria, vuol dire che su quel treno il premier deve salire al volo. 

 

Ed è così che anche sullo sblocco cantieri, Conte s’è deciso a osare, con un pacchetto di semplificazioni normative pensato come transitorio, ma dirompente: riforme temporanee, valide per un anno, che però snelliscano i vincoli del codice degli Appalti fino quasi a congelarlo del tutto. Un approccio perfino più determinato di quello di Matteo Renzi; un azzardo che avrebbe evidentemente un obiettivo nobile di sbrogliare la matassa normativa e burocratica sulle opere pubbliche, ma che tradisce anche un’ambizione più politica, da parte del premier. Quella, cioè, di accreditarsi con quel centrodestra che guarda alla sua figura con ambivalente curiosità. E non si tratta tanto dei gruppi parlamentari e degli annessi cespugli di responsabili, se è vero che il senatore Paolo Romani s’è sentito in dovere, lui, di informarsi col ministro grillino Federico D’Incà per sapere se su questo piano choc ci fosse o meno la possibilità di un dialogo più serrato col premier. No, il vero obiettivo di Conte è semmai la Confindustria. E non è un caso che da giorni continua a prendersi ceffoni clamorosi da parte del presidente Carlo Bonomi continuando, in silenzio, a porgere l’altra guancia.

  

E però, un’apertura troppo smaccata al mondo delle imprese sul piano choc rischia di esporre il premier alle critiche del centrosinistra. Un pezzo del Pd, e tra questi il capogruppo alla Camera Graziano Delrio, aspetta Conte al varco: “Se abrogando il codice degli Appalti vogliono far rientrare il berlusconismo dalla finestra, lo faranno senza di noi, se Giuseppi tira dritto si farà male”, tuonano i deputati dem nelle chat, prendendosela anche col ministro Paola De Micheli, tacciata di eccessivo “contismo”. Figurarsi, allora, cosa ne pensano dalle parti di Leu. “Snellire le procedure è sacrosanto – dice il capogruppo a Montecitorio Federico Fornaro – ma ci metteremo di traverso rispetto a ogni cedimento su diritti dei lavoratori e tutela dell’ambiente. Il codice degli Appalti può essere reso più fluido, ma non certo archiviato, anche in relazione ai rischi di infiltrazione mafiosa”.

 

Renzi osserva le mosse del premier. E intanto, però, rilancia, come a volerlo mettere alla prova proprio sul terreno della rincorsa al mondo produttivo. E così oggi Iv presenterà un piano dettagliato su come spendere i 36 miliardi del Mes: non solo investimenti nell’edilizia ospedaliera e per le reti di assistenza territoriale, quelle che con il Covid abbiamo scoperto essere state trascurate troppo, non solo un progetto di digitalizzazione del sistema sanitario, ma anche un massiccio programma di riqualificazione dei mezzi per il trasporto pubblico locale, necessario a garantire il distanziamento fisico di pendolari e viaggiatori. Una mossa pragmatica, quella di Renzi, così da “scoprire il bluff dei sovranisti” sul Mes, ma che al contempo serve a mettere in difficoltà Conte di fronte a Confindustria, che il ricorso a quei 36 miliardi lo invoca a gran voce. Fosse per Conte, non avrebbe problemi a chiedere il prestito, come non ne ha avuti a convertirsi all’europeismo più convinto. Basta che funzioni a garantirgli la permanenza a Chigi. Il problema però, qui, è nell’ottusa resistenza del M5s, che ad accettare il Mes (così come a rinunciare alla revoca delle concessioni ad Aspi) dovrà arrivarci per gradi, per progressive giravolte lessicali e fumisterie semantiche, onde evitare lo spauracchio di scissioni o il ritorno, a capo dei duropuristi traditi, del redivivo Dibba, con cui non a caso Conte s’è messo in contatto.

  

Ed è questa, però, la debolezza intrinseca del contismo: il dover stare sempre in equilibrio sulle contraddizioni di una maggioranza eterogenea senza mai indirizzare l’azione del governo. “Conte deve decidere cosa fare”, dice il democristiano Gianfranco Rotondi, che pure è stato a lungo un suo estimatore. “Non può essere al contempo il punto di riferimento dei progressisti, il leader che costituzionalizza il M5s, e il federatore del mondo cattolico magari con un suo partito, su cui comunque Oltretevere ormai non si scommette più. E deve decidersi, perché non può pretendere che tutti restino in attesa di capire come lui vorrà arrivare alle prossime elezioni”.