Camera dei Deputati (foto LaPresse)

L'emergenza democratica è davanti a noi: o il proporzionale o la repubblica del Papeete

Francesco Cundari

Il tempo stringe, è necessario mettere in sicurezza le istituzioni per evitare la deriva che ha già trasformato tante promettenti democrazie dell’est in regimi semiautoritari

Roma. La politica è fatta di scelte, e la scelta che ci troviamo davanti, ora che il Parlamento ha approvato il “taglio dei parlamentari” quasi all’unanimità, potrà anche non piacere, ma è inevitabile: o la proporzionale o il Papeete.

 

Il secondo governo Conte è nato in nome di un’emergenza democratica: il rischio che Matteo Salvini ottenesse davvero i “pieni poteri”, applicando a Palazzo Chigi la stessa torsione populista già impressa al Viminale, ma disponendo anche della possibilità di cambiare la Costituzione a maggioranza ed eleggersi il Capo dello stato praticamente da solo. Di conseguenza, una volta formato il nuovo governo ed evitata così la corsa alle urne, si è diffuso nelle file della nuova maggioranza, se non proprio un moto di euforia, quanto meno un senso di sollievo per lo scampato pericolo. Una reazione tanto comprensibile quanto infondata. La vera emergenza democratica, infatti, non è quella alle nostre spalle, ma quella che abbiamo davanti.

 

La fragilità del governo è sotto gli occhi di tutti, e a cambiare il quadro certo non sarà la finanziaria di cui si sta discutendo, che semmai ne conferma la debolezza. Ma più che la manovra economica, a certificare il vuoto di potere è ancora una volta, come nella migliore tradizione nazionale, un opaco intreccio di manovre interne e interferenze straniere, inchieste giudiziarie e scandali internazionali. Come nei momenti peggiori della Guerra fredda, l’Italia sembra tornata terra di conquista, sconvolta da uno scontro tra grandi potenze in cui i principali rappresentanti delle istituzioni e gli esponenti dei più importanti partiti di maggioranza e opposizione vengono mossi come pedine, e persino i vertici della nostra intelligence sono impropriamente trascinati dentro uno scontro di apparati che divide gli stessi Stati Uniti.

 

Ci sono dunque serie possibilità che l’attuale equilibrio non regga a lungo, e si debba tornare al voto nelle condizioni peggiori immaginabili. Si pensi solo a cosa potrebbe accadere nel momento in cui alla fine di una campagna elettorale segnata da sovrastanti tensioni internazionali e sottostanti imbroglioni locali emergessero, al tempo stesso, nuove e sempre più gravi implicazioni giudiziarie della Lega e di Matteo Salvini da un lato, e dall’altro una sua trionfale vittoria elettorale. Una vittoria che l’inerzia dell’attuale maggioranza rischia di rendere ancora più esplosiva, per l’effetto combinato della legge elettorale e della posizione di eccezionale debolezza degli avversari, così da consegnargli davvero i pieni poteri. Per non parlare di cosa accadrebbe se il taglio dei parlamentari fosse già operativo, con tutte le relative distorsioni sui quorum necessari per eleggere giudici costituzionali, membri del Csm, autorità di garanzia, presidente della Repubblica.

 

Ci troveremmo in una situazione simile a quella in cui si trovano attualmente gli Stati Uniti con Donald Trump, ma senza un decimo dei contrappesi istituzionali e degli argini democratici al suo strapotere. In breve, più che in America, finiremmo dritti nell’Ungheria di Viktor Orbán.

 

I tre mesi indicati dal vaghissimo documento in cui i partiti di maggioranza si impegnano a presentare una nuova legge elettorale potrebbero essere dunque l’ultima occasione per costruirli, quei benedetti contrappesi.

 

Non si tratta più di dividersi tra sostenitori del sistema tedesco e fautori del modello americano, amanti del doppio turno alla francese e feticisti dell’uninominale inglese. Il tempo stringe: o mettiamo adesso in sicurezza le istituzioni, la divisione dei poteri, l’indipendenza delle autorità di garanzia e di controllo, o accettiamo la deriva che ha già trasformato tante promettenti democrazie dell’est in regimi semiautoritari, democrazie illiberali o democrature che dir si vogliano. Se non vogliamo rassegnarci a correre un simile rischio senza far nulla, o peggio spianandogli la strada in nome delle nostre ossessioni ideologico-elettorali, bisogna intervenire subito, e bisogna farlo nell’unico modo possibile: provvedendo quanto prima a incardinare e blindare una legge elettorale proporzionale che assicuri l’impossibilità per il vincitore, chiunque sia, di rimettere in discussione le basi dello stato di diritto (ad esempio, anche prevedendo che nessuna ulteriore modifica del sistema elettorale possa entrare in vigore dalla legislatura successiva, ma debba sempre, per dir così, saltare un giro).

 

Parliamoci chiaro: la responsabilità di evitare la deriva ungherese non sta solo sulle spalle di coloro che oggi siedono in Parlamento. Sta anche e forse prima ancora nei tanti costituzionalisti, giornalisti e opinionisti che finora se ne sono disinteressati, o peggio insistono nel fare pressione affinché si prosegua sulla strada di un sistema maggioritario che, unito al taglio dei parlamentari e al contesto di cui sopra, potrebbe essere davvero il colpo decisivo all’equilibrio dei poteri. Anche per loro questa è l’ultima occasione, se non vogliono essere ricordati nei libri di storia come quei liberali che nel 1923 sostennero la legge Acerbo. Una riforma della legge elettorale che consegnò al vincitore, la sera stessa del voto, alle elezioni del 1924, una maggioranza nettissima, e di cui quegli stessi politici, giornalisti e intellettuali che l’avevano sostenuta furono tra i primi a fare le spese.

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