Foto LaPresse

Lettera aperta di Forza Italia al presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni

Renato Brunetta*

Suggerimenti su come fare in Europa le riforme necessarie all'Italia "senza accettare il ruolo di ballerina di seconda fila"

Signor Presidente del Consiglio,

 

1) Passata la bufera delle liste, che non ha risparmiato nessun partito, ma che ha scosso in particolare il Suo Pd, torniamo a parlare del Paese, dell’Europa e del futuro che vogliamo costruire. I quotidiani nelle scorse settimane hanno registrato un cambio di qualità nel rapporto tra Lei e il suo partito. Il Pd ed in particolare il suo segretario d’ora innanzi avranno in Lei il più autorevole protagonista della campagna elettorale. Tutto legittimo. A una condizione, che valeva ancor prima che Lei, Presidente, tornasse a indossare la divisa del militante, ma tanto più ora. E che cioè non usi le leve di Palazzo Chigi per scelte strategiche che vincolino, anche solo moralmente, il destino del nostro Paese per i prossimi anni.

 

2) Noi, da forza di opposizione responsabile, non intendiamo l’ordinaria amministrazione come un governo a metà: i tempi non consentono la “ammuina”, e nelle tempestose acque degli anni in cui ci tocca vivere chi guida deve ben governare la nave. Altra cosa è, invece, dirigere la nave-Italia su rotte che spetta agli elettori, e solo a loro, indicare con il voto del 4 marzo.

 

3) In questo senso, sarebbe stato quindi opportuno che Lei non avesse preso l’iniziativa passata alle cronache con il nome solenne di “Trattato del Quirinale”. A Parlamento sciolto Lei non aveva, infatti, l’autorità, non già formale, ma politica per intraprendere un simile passo.

 

4) Con amarezza ci tocca constare che il cd “Trattato del Quirinale", imbastito con il presidente Macron con l’intento di rafforzare la cooperazione bilaterale tra Italia e Francia, si presenta in questo momento come un atto di subordinazione che Lei aveva il dovere di evitare all’Italia. E’ palese infatti che l’europeista Macron si avvia a rinsaldare un asse franco-tedesco al quale l’Italia non può e non deve partecipare per interposta persona, come temiamo stia accadendo. Perché farlo significa, in buona sostanza, ammettere la nostra debolezza. Siamo estremamente preoccupati per quanto sta avvenendo a Bruxelles, dove gli alti funzionari europei e gli Stati membri, senza alcuna rappresentanza italiana presente, dibattono sulla nuova governance europea.

 

5) E’ legittimo che il presidente francese voglia, da una parte, tracciare il futuro dell’Europa, facendo leva sulla intesa bilaterale con la Germania. Un po’ meno che da parte italiana gli si consenta di farlo servendosi anche della attuale oggettiva debolezza contrattuale italiana. E gli elogi personali rivolti a Lei dal presidente Macron suonano certamente sentiti ma un po’ fuori luogo nel momento in cui altrove in Europa autorevoli tecnici francesi e tedeschi tracciano le linee della Europa prossima ventura, disegnando scenari carichi di significative implicazioni per l’economia e per la società italiana.

 

6) Su che basi è stato possibile siglare il Trattato del Quirinale? Forse sarebbe stato più opportuno attendere un governo nella pienezza dei suoi poteri per affrontare temi di questo rilievo. E forse sarebbe opportuno che il governo francese così come il governo tedesco attendano un governo italiano nella pienezza dei suoi poteri per tracciare su un foglio bianco i caratteri della futura Europa. Forse questo e solo questo avrebbe dovuto essere il contenuto del Trattato del Quirinale.

 

7) Ciò detto, Presidente, è fin troppo evidente che la debolezza italiana in ambito europeo non è solo la conseguenza del periodo pre-elettorale. Pesano sulla nostra autorevolezza e sulla nostra affidabilità quattro anni in cui si è pensato di poter sostenere il nostro anemico potenziale di crescita per lo più attraverso maggiori disavanzi pubblici. Non era la soluzione, come si vede chiaramente. Come non lo erano le tante regalie che hanno segnato il cammino del precedente governo e, purtroppo, anche del suo. Come non lo erano i tentativi di presentare come riforme strutturali misure dall’impatto limitato, legate essenzialmente a forme di sovvenzione.

 

8) Tutto ciò ha fatto sì che l’Italia in questi ultimi anni abbia dato purtroppo un contributo significativo ad approfondire i problemi dell’Ue e non già a risolverli. La stagione dell’austerità ha contribuito ad allargare il divario fra i paesi membri dell’Unione. Il gap è aumentato: i paesi in condizioni migliori hanno sofferto meno, i paesi periferici di più. Bisognava cambiare la direzione di marcia e la filosofia d’azione. Non era sufficiente parlare di azioni europee per la crescita e ricamare sulla “flessibilità” nell’applicare i parametri del Trattato Ue relativi al deficit e al debito pubblico. Prima di tutto, non erano novità perché erano già state proposte e attuate iniziative favorevoli alla crescita dell’economia. E quanto alla cosiddetta “flessibilità”, vantata come merito proprio dal Governo Renzi, è in realtà sempre stata possibile; basta leggere l’omonima comunicazione della Commissione europea del febbraio 2015 per capire che le deroghe che hanno consentito la “flessibilità” sono le stesse ottenute dal governo Berlusconi nell’ottobre 2011 e confermate persino dal Fiscal Compact, alle quali si aggiunge la possibilità, negoziata fra il 2012 e il 2013, di non conteggiare nel deficit il cofinanziamento nazionale della spesa dei fondi strutturali Ue.

 

9) Per guardare avanti bisognava cambiare strada e puntare a ridurre quel pernicioso differenziale fra gli Stati membri dell’Unione che rappresenta ancora oggi il pericolo principale per l’Unione stessa. Chi vuole realmente un’Europa unita deve cercare questo risultato. L’impegno futuro deve essere certamente mirato a correggere certe regole applicative dei parametri base dell’area dell’euro affinando le metodologie di valutazione e di calcolo relative ai parametri stessi. Così come deve disegnare canali per consentire la ripresa di investimenti pubblici produttivi, coerenti con i più volte ribaditi obiettivi europei di crescita e creazione di posti di lavoro, e di cui non solo l’Italia ha bisogno.

 

10) Ma, signor Presidente, l’impegno doveva negli ultimi anni e deve oggi essere rivolto concretamente ad assicurare una reale convergenza fra i paesi membri. E’ qui che il precedente governo così come il suo hanno drammaticamente fallito. L’Italia è oggi più lontana dall’Europa di quanto non fosse all’inizio del secolo. Lo è dal punto di vista della crescita (cresciamo un po’ di più, certo, ma sempre molto meno degli altri), lo è dal punto di vista del mercato del lavoro (i nostri tassi di disoccupazione eccedono significativamente i corrispondenti tassi medi europei), lo è nella finanza pubblica.

 

11) Contestualmente, piuttosto che elemosinare come abbiamo regolarmente fatto negli ultimi anni, inutili margini di flessibilità, l’azione italiana europea andava concentrata sulla necessità pressante di invitare gli altri stati membri a comporre le loro divergenze rispetto alla media Europa. Lei sa bene che nell’Unione europea, tutti gli Stati membri condividono lo stesso mercato aperto senza barriere, e svariati Stati anche la medesima moneta. Se s’impongono rigidi limiti ai loro conti pubblici, ne deriva che gli Stati con un debito più piccolo dovrebbero mantenere alta la spesa pubblica e/o basse le tasse per aumentare la loro domanda interna ed evitare l’ampliarsi di squilibri macroeconomici interni all’Europa. Non è per niente casuale che in questi anni sia cresciuto il surplus commerciale negli scambi intra-europei a favore di questi Paesi. Ne ha, soprattutto, approfittato la Germania, che vende molti più suoi prodotti nel resto dell’Europa, di quanti ne acquisti.

 

12) Era questo il punto da far valere, signor Presidente! L’Unione – nel suo interesse – doveva e deve prestare attenzione a tutti gli squilibri macroeconomici che ancora la caratterizzano. E non si può non constatare che le attuali regole e le istituzioni europee di vigilanza nell’applicarle, trattano in modo differente i diversi squilibri macroeconomici. Per fare solo l’esempio più evidente, di fronte ai continui surplus commerciali tedeschi (e non solo) la Commissione europea si è limitata a segnalarli in un rapporto e a raccomandare la loro riduzione: non è sufficiente.

 

13) Occorre un’efficace politica europea che porti alla reflazione, nei tempi più rapidi, dei surplus commerciali della Germania e di qualunque altro Stato che approfitti di un’analoga situazione. Se l’Unione agisse seriamente contro i surplus commerciali eccessivi, l’effetto positivo sull’intera area dell’euro sarebbe immediato, ma soprattutto potremmo affrontare con la necessaria calma i passi successivi: l’unione bancaria e quella del mercato dei capitali, la forma ed il contenuto del bilancio dell’Unione, la sua governance.

 

14) Allargando la visuale, il ruolo assunto dall’estate 2012 dalla Banca Centrale europea ed i suoi efficaci interventi hanno salvato l’euro e probabilmente anche la stessa Unione europea. Adesso, di fronte a una situazione che è cambiata in meglio, è comprensibile che debbano diradarsi. L’importante è che ciò avvenga gradualmente, in maniera da non riagitare le acque.

 

15) Per fare di più dobbiamo aiutare l’Italia a crescere; molte imprese stanno facendo la loro parte e un governo sin d’ora più attivo può aiutare con investimenti mirati a incrementare il prodotto interno lordo. In un tale quadro, consideriamo imperativo impegnarci a spendere più velocemente e soprattutto meglio i fondi che ci arrivano dal bilancio Ue e in primo luogo dai fondi strutturali (circa 30 miliardi di euro, nel periodo 2013-2014) che vanno essenzialmente alle Regioni del Mezzogiorno. Non c’è tempo da perdere. Anzi, a ben vedere, il Mezzogiorno costituisce la nostra migliore riserva per la crescita dell’economia nazionale; ha un potenziale di prim’ordine, proprio per il suo attuale divario e questo deve essere ben compreso dall’Europa come un fattore di notevole positività.

 

16) Su questo fronte, signor Presidente, il suo governo è chiamato a muoversi fin dalle settimane in corso. Ci attendiamo – e su questo punto certamente non le mancherà il nostro sostegno – che il governo italiano raccolga il necessario consenso a livello europeo per salvaguardare le significative risorse dei fondi strutturali Ue a noi destinati e, contestualmente, per promuovere una revisione delle politiche di coesione dell’Unione al fine di garantirne una efficacia maggiore di quella fino ad ora osservata. Nella primavera 2018 inizierà la cruciale discussione del prossimo esercizio di bilancio Ue e in tale sede si decideranno le dotazioni del nuovo ciclo di fondi e andranno concretizzati gli intenti di cui sopra.

 

17) Nel nostro Paese sono necessarie riforme profonde, troppo a lungo osteggiate o camuffate da chi, in realtà, non voleva e non vuole cambiare niente. Le riforme sono, anzitutto, un dovere verso i cittadini, per rispettarne le esigenze con uno sguardo al futuro; inoltre, sono annualmente prese in considerazione dai vari meccanismi di sorveglianza e guida per la convergenza delle politiche economiche fra gli Stati membri dell’Unione europea. In un programma di riforme strutturali, gli obiettivi guida dell’Ue e di un governo responsabile, coincidono largamente perché discendono dalla duplice volontà di migliorare, semplificare la qualità di vita dei cittadini e agevolare la competitività delle imprese. Ma come parlare di riforme a chi – come è accaduto agli ultimi due governi – ha sotto questo aspetto profondamente deluso le attese degli italiani?

 

18) Non è, tuttavia, soltanto l’Italia che ha necessità di riforme, i rilevanti documenti illustrano che ogni Paese europeo deve vararle. Andrebbe, pertanto, ripresa l'idea, lanciata dal cosiddetto “Rapporto dei quattro Presidenti” Ue e delineata al Consiglio Europeo del dicembre 2013, di stabilire “impegni contrattuali” fra l’Unione e i singoli Stati membri. Un’equilibrata rete di siffatti accordi, consentirebbe di far procedere all’unisono tutti i governi nazionali, ciascuno per le riforme di cui il suo Paese ha bisogno. Lo schema ipotizzato nel 2013, prevede che detti impegni siano incentivati, concedendo a ciascuno Stato il supporto ad esso più appropriato, incluse forme di deroga rispetto alle regole Ue o più ampi margini per erogare aiuti pubblici.

 

19) Muovendosi in Europa in questa direzione, senza accettare il ruolo di ballerina di seconda fila, un governo anche a Camere sciolte, capace di dismettere le insegne di partito, può rendere meno dura la vita dei nostri concittadini e delle aziende italiane. Non appartiene alla nostra cultura la logica del tanto peggio, tanto meglio. E se fa sue queste idee e progetti, non rivendicheremo i diritti d’autore.

 

Intanto però lasci perdere, Presidente, il Trattato del Quirinale. Per parte nostra, ci prepariamo a governare, dopo aver vinto le elezioni. Cosa che non accade nel nostro Paese da fine 2011. Ma questa è un’altra storia.

  

* presidente dei deputati di Forza Italia