Matteo Orfini (foto LaPresse)

Orfini, o il professionismo dell'autogol

Giuliano Ferrara

L’insano bisogno (impolitico) di fornire la pappa pronta ai nemici

Jean-Paul Sartre, richiesto di un parere su un filosofo un po’ troppo funzionario che si chiamava Jean Kanapa, scelse una volta la via breve: “Un crétin”. Matteo Orfini non è un cretino, ma si comporta da cretino. Alimenta senza tentennamenti la fragorosa e grottesca campagna sulla mafia a Roma, i grillini se ne impadroniscono come sempre avviene quando uno che dovrebbe essere serio si mette a fare il mestiere degli sfasciacarrozze suoi avversari, a quel punto va in crisi il sindaco-chirurgo, uno che si stenta anche a ricordarne il nome, e lui per tutta risposta gestisce le cose in modo tale che alla fine la Raggi, dico la Raggi, diventa sindaco di Roma con il sessanta per cento e più dei voti, compreso quello di Spelacchio; e dopo la sentenza che nega la mafia dei cravattari alla corleonese lui che fa? Bè, ribadisce l’esistenza di una piovra nella Capitale del paese.

 

Sempre nello stesso stile, deve essere lui che ha suggerito a Renzi la cialtronata della guerra a Visco e della commissione Casini, sì, proprio Casini, sulle banche, uno degli atti di autolesionismo politico più rilevanti nella storia italiana, e sempre ispirato dall’idea che bisogna fare il mestiere dei grillini e dei demagoghi per sconfiggere grillini e demagogia. Ma non basta.

 

Nel mezzo del casino dei casini, decide di difendere la commissione Casini, che è diventata il teatrino della Gran Chiacchiera nazionale su una crisi che non c’era, su perdite ristorate, su orafi e territori giustamente sorvegliati dai politici di governo, con una lettera penosa al giornale che chiede le dimissioni della Boschi, richiede cioè il foglio di via anche per lui stesso, ovvio, e a questo punto si merita il nomignolo di Orafini, l’uomo che se ne sta con i suoi argomenti impotenti sospeso tra Arezzo e Vicenza, un’oreficeria politica di quelle che si ricorderanno per generazioni. La sua formazione, tenuto conto che è persona a modo e non gli si possono rimproverare altro che errori, qualcosa notoriamente peggiore del delitto, almeno in politica, si svolge tra la troppo celebrata sezione Mazzini del Pci e la segreteria dell’onorevole D’Alema, anche lui troppo celebrato e autocelebrato (bye bye Massimo). Per quanto overrated, questi luoghi e persone di politica avrebbero potuto essere nobilitati da battaglie e manovre responsabili all’insegna dell’esperienza, è successo a molti ex mazzinisti ed ex dalemiani, invece sono stati da Orfini imbarbariti e piegati, per sconsiderato agonismo, all’autogol, che dell’agonismo è la negazione. Autogol degli autogol, l’argomento epistolare usato con Repubblica ieri: le banche erano al collasso, la gente rovinata, dovevamo fare la commissione e la guerra a Visco per senso di responsabilità.

 

Un banchiere di vero successo europeo, Mustier, che ha rilevato Unicredit dalla gestione del grande accusatore debortoliano Ghizzoni, ha detto proprio ieri che le banche italiane sono robuste, che le cose vanno piuttosto bene, che le riforme accudite oggi da Macron in Francia l’Italia le ha già fatte tutte, e il giudice a Berlino in appello ha sentenziato che al Monte dei Paschi di Siena non c’è mai stato il massacro della legalità e della bona gestio o della gestio così così (il latinismo corrisponde alla cretinissima formulazione impiegata dalla commissione Casini, mala gestio). Alberto Brambilla, il Foglio e alcuni altri se ne erano accorti per tempo, che le banche erano diventate terreno minato per la ossessiva propaganda parapopulista dei marrazzoni, e che le riforme erano state il cuore della legislatura “renziana”: non poteva accorgersene anche Orfini? Non potevano, lui e gli altri, evitare di far trovare a de Bortoli la pappa fatta? 

 

Tra l’altro la carriera professionale di de Bortoli non aveva bisogno di aiutini. Bravo giornalista, de Bortoli è sempre stato nominato alla testa del Corriere, culmine inarrivabile di credibilità professionale e di maestosa imparzialità sociale, da banchieri, è un banchiere che gli ha consentito lo scoop sulla frasetta in conflitto di interessi della Boschi, sì perché è quello il conflitto di interessi, sono intimamente bancari i suoi argomenti principali di giornalista economico, è banchieristico il suo profilo di cocco della Milano giusta, piaciona, e del perbenismo antimassonico. Renzi pensava di restringere gli appetiti del suo ambiente non telefonandogli mai, fino a un certo momento, e lui arrabbiato gli disse che era un incappucciato, tra i modi più spicci per eliminare lobbisticamente una presunta o vera lobby avversaria, cioè come sempre la politica nella sua veste di potere fragile che vuole emanciparsi un pochettino. Bisognava proprio cucinargli questo pastone succulento e alla fine porgerglielo nella ciotola della commissione banche? Invece di frantumarsi e frantumarceli su querele apparenti e difese inefficaci, non era meglio spiegare subito che i ministri parlano con i banchieri, non è un privilegio dei soli giornalisti, anche perché i ministri hanno la legittimazione del Parlamento e magari degli artigiani orafi che fanno le loro belle “pressioni”, e non sono dei nominati?

  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.