Walter Veltroni (foto LaPresse)

“A tu per tu”

Non si governa con un like. Parla Veltroni

Salvatore Merlo

“Internet ha cambiato la democrazia. Si banalizzano e semplificano i messaggi. La politica oggi non può più essere passiva”. L’involuzione dei partiti e Roma, città incarognita

E fra i sopraccigli ritrova quel lieve solco verticale, testimonianza di una intensità ostinata. “Se mi chiedi se sono sereno nel guardare quello che succede nel mio paese ti dico: ‘No’. Ed è anche per questo che sono tornato a parlare. Mi ronza in testa una domanda, sempre uguale: possibile che negli anni Venti e Trenta nessuno si accorgesse di quello che succedeva?”. Giovanni, il protagonista di “Quando”, il suo ultimo libro pubblicato dalla Rizzoli, ha un incidente durante i funerali di Berlinguer, entra in coma, si sveglia dopo trent’anni, e si accorge che è cambiato tutto: la lingua, la società, la tecnologia, la politica… Il contrario della sinistra oggi: dorme in piedi, e non si accorge di quello che succede? “Siamo in una fase di pericolosa semplificazione dei processi democratici che ricorda gli anni Venti”. Una fase pre-fascista? “E’ come un labirinto”, dice lui, mentre con la penna, preso al laccio dai suoi pensieri, disegna un intricato geometrizzarsi di linee che s’intersecano in un dedalo. E’ uno schema. “In questo labirinto ci puoi restare imprigionato”, dice. “Se vuoi uscirne devi trovare un’idea generale e il senso dell’orientamento. Ma in politica non vedo le culture capaci di passare dalla cruna dell’ago. E non solo in Italia. Guardati intorno. La Brexit, la Catalogna, l’est europeo che passa dal comunismo al nazionalismo, la destra in Austria, persino la Germania… Si sta incrinando uno dei paradigmi essenziali che fin qui avevano retto: la solidità tedesca. La tecnologia, i social media, la cultura politica prevalente, tutto quello che il protagonista del mio romanzo scopre con stupefatta lentezza, stanno accompagnando processi di semplificazione che mettono a rischio la processualità della democrazia, la trasformano nel regno dell’immediato, mettono in crisi il principio della delega, trasformano tutto in decisione pura e semplice. Pollice su o pollice giù”. Come Facebook, come il commento su un blog, o il clic su una piattaforma di voto online che si chiama Rousseau. Su questo giornale ne ha parlato anche Marco Minniti, con Claudio Cerasa. C’è un’allusione al M5s? “Parlo di tutti. In passato mi hanno preso in giro per il ‘ma anche’. Ma nel ‘ma anche’ c’è la complessità. Le idee sono un meraviglioso parto. Dal dialogo, dall’incontro di due idee, ne nasce spesso una terza che viaggia nell’aria, si condensa, precipita in qualcosa di promettente”.

  

E mentre pronuncia queste parole, Walter Veltroni, seduto nel salotto della sua bella casa piena di libri, dvd (e videocassette dell’Unità), tra schizzi di Fellini e di Ettore Scola, tra i sogni e i ricordi di una vita – “questo è il leone d’argento che Gillo Pontecorvo vinse per ‘La battaglia di Algeri’, è la copia che gli regalò Steven Spielberg, perché l’originale gli era stato rubato” – ecco che il filo dei suoi pensieri viene interrotto dal campanello: dlin-dlon. E’ un corriere postale. Gli ha portato un libro di Thomas Mann. E dev’essere proprio vero che il caso ha una sua sapienza, perché la busta di Amazon contiene quei “moniti all’Europa” che negli anni Trenta il grande scrittore tedesco rivolgeva alla società borghese, che non si accorgeva d’andare verso il baratro. “Sono assillato dal rovello di come sia potuto accadere”, dice Veltroni. “E mi chiedo se non si debba avere il coraggio di suonare l’allarme”. Più in là un’intera ala della libreria è tappezzata dai Meridiani. Quello di Eugenio Scalfari è in evidenza, poggiato di taglio. Scalfari ha detto che tra Luigi Di Maio e Silvio Berlusconi, lui voterebbe per Berlusconi. “Se ci pensi il concetto di ‘meno peggio’ contiene un’imperfezione logica e una scorrettezza grammaticale. In italiano non si dice ‘meno peggio’. Dentro questa espressione c’è un cortocircuito”. Che evidentemente riflette i tempi.

  

Ci sono i rottamati, e poi c’è lui. Vedova allegra. “Avevo altre passioni oltre la politica. Ora le coltivo. Perché portare rancore?”

Ci sono uomini che subiscono i dolori della vita, le sconfitte, le crudeltà della politica, fino a soffrirne fisicamente, com’è accaduto a Pier Luigi Bersani, che è stato male e si è poi per fortuna ripreso. Ce ne sono altri, come Massimo D’Alema, che tramutano il dispiacere in rancore e ne fanno una forza, se ne nutrono. E ci sono infine uomini che spariscono come nulla fosse, e zitti zitti saltellano come donzelle felici, cambiano mestiere, girano film su Enrico Berlinguer, celebrano matrimoni hollywoodiani, scrivono romanzi e trasmissioni televisive. E insomma ci sono i rottamati, e poi c’è Walter Veltroni. Così, quando gli diciamo che lui ci sembra una vedova allegra, la faccia di Veltroni si spalanca in un ampio sorriso, “faccio politica con altri mezzi”, risponde confermando, a quanto pare, l’allegria. “Ho sempre coltivato uno spazio parallelo, rubando la notte, rubando l’estate, i fine settimana. Sono sempre stato convinto di dover illuminare il mio mondo, la mia vita. Così, quando ho smesso con la politica, ho come sentito di poter riconquistare a pieno cose che avevo in gran parte perduto: la gestione del tempo, della fantasia, della lettura…”

 

[Squilla il telefono. Veltroni si alza dalla sedia, e va a rispondere. E’ qualcuno che sta organizzando una trasferta per presentare il suo ultimo libro, il racconto (“ti assicuro non autobiografico”) di un giovane comunista che si risveglia uomo adulto nell’Italia di Grillo e di Berlusconi, di Instagram, delle urla, dei frizzi e dei lazzi. C’è scritto a pagina 131: “Per i compagni lui non esisteva più, forse non era mai esistito. Il dramma è che sapeva di non poter inveire contro nessuno. In fondo era giusto, era naturale che fosse andata così. Per gli altri. Per lui, no. Non c’era nulla di naturale e di accettabile in questa storia”. E’ così che ti senti tu? “Ma no. Dai. non scherziamo”]

 

Internet favorisce il populismo? “Cambia la democrazia. Si banalizzano e semplificano i messaggi i processi decisionali”

… Eppure è difficile lasciare la politica, dopo una vita, “entrai nel comitato centrale del Pci a 28 anni”, dice in un soffio. C’è quella canzone di Jacques Brel… com’è che fa? “Ci vuole del talento / per invecchiare senza diventare adulti”. Ma davvero Veltroni ha smesso? Viene evocato con una certa, costante pendolarità, in televisione, sui giornali, nei retroscena, a ogni emergenza, e per gli incarichi più disparati. Qualcuno si è spinto a immaginarlo presidente del Consiglio, nella prossima legislatura. “Vengo evocato per ruoli di garanzia. E questo mi fa piacere. Perché credo di non essere un fazioso. Dalla Rai, al calcio, passando per la Biennale. Poi, come vedi, non succede. Ma sono cose che mi fanno piacere, perché forse confermano un’idea che ho di me stesso”. Ma davvero non porti rancore, non hai sofferto? “Avevo altre passioni, al di là della politica. E adesso le coltivo. Per cui: perché dovrei avere rancore? Ma se la domanda è se mi piace quello che vedo, come ti dicevo prima, la risposta è no. Ci sono segni d’involuzione preoccupante nella società e nella politica”. Fai degli esempi. “Nella Lega che che coccola forme di razzismo, nella sinistra che vede e cerca con ansia nemici al suo interno, nel M5s che si considera portatore esclusivo della Verità”.

 

E a questo punto Veltroni esprime la fiducia quasi assoluta nelle facoltà dell’intelligenza e della ragione contro quelle della vitalità e dell’istinto, il disprezzo preoccupato per la moderna imbecillità digitale, il cruccio per la cronaca, come cosa stupida e a tratti forsennata. “C’è un rapporto tra democrazia e tecnologia”, dice, riferendosi ai social media, alla potenza con la quale internet è precipitata sulla politica, sull’informazione, su ogni elemento della vita quotidiana. “Non si capisce che quando ci sono enormi mutamenti nel costume, nelle abitudini sociali, queste rivoluzioni destrutturano ogni cosa. La rivoluzione tecnologia ha effetti antropologici e sociali enormi. Modifica il rapporto con il tempo, con gli altri, con i poteri, con il sapere. Se vi sembra poco, tanti auguri”.

 

Internet favorisce il populismo? “Cambia la democrazia. Si banalizzano e semplificano i messaggi, ma anche quei riti che hanno storicamente portato alla formazione del processo decisionale, e che non erano esornativi, ma rispecchiavano la complessità del pensiero umano. Se tutto questo non verrà in qualche modo risolto dalla stessa democrazia, si continuerà a votare, certo, ma seguendo processi sempre più rapidi, più semplici, istantanei e dunque privi di sfumature, di dubbi, forse anche di consapevolezza, come un tweet o un like”. Un mondo che tende a ridurre ogni cosa a una scala monodimensionale, modica e accessibile, come quella dei bambini: bello/brutto, buono/cattivo. Ed è strano come tutto questo si accompagni, anche, al turpiloquio, alla violenza, alla volgarità, che non è mai metafora, non è furbizia, ma segnala povertà intellettuale prima ancora che lessicale.

 

“A Roma i gabbiani col becco lordo di sangue sono una specie di simbolo felliniano, raccontano la regressione di una città ripiegata”

Ma Veltroni non è luddista, ovviamente, tutto il contrario. “La tecnologia mi attira e la modernità mi affascina”, dice. “Ricordo nel 1995 quando con un computer mostravo agli amici i primi passi che facevo nel mondo digitale. Però avverto una sorta di passività pericolosa nei confronti della tecnologia, e non solo da parte della politica, ma anche dell’informazione. Umberto Eco cominciò la sua vita di intellettuale prezioso e sorgivo polemizzando contro la sinistra che snobbava e aborriva la televisione, che era la modernità. E aveva ragione. Ma ha finito la sua vita polemizzando contro ‘le legioni di imbecilli’ del web’”. Gente che tutto quanto pensa resta al livello della peristalsi, degli enzimi, dei succhi, della pancia. “Non c’è il dubbio. E non ci sono gli ‘altri’”.

 

Nel suo ultimo racconto lungo, “Quando”, il protagonista scopre un tatuaggio stampato sul bicipite del suo infermiere. Legge questa parola, e si chiede cosa significhi: Totti. Cosa significa Totti? “Che c’è spazio per l’estro e la fantasia anche in una grande industria fatta di fisico e di denari come il calcio. Totti è il senso dell’umorismo romano, è le radici popolari, è l’amore per una città di cui fai fatica a staccarti. Io non ho mai creduto al cinismo spregiudicato dei romani. Non sono così. Quello che conta è lo spirito del tempo che si determina, è lo zeitgeist che ha la capacità di evocare i migliori sentimenti”. E la Roma di oggi a Veltroni appare involuta, forse incarognita. Un po’ come il resto del paese, verrebbe da dire. Forse peggio. “La mattina, quando esco di casa, incontro spesso un gabbiano che se ne sta a frugare dentro il cassonetto. Con quel becco sempre lordo di sangue. Sembra Genni, il camorrista di Gomorra. E’ una specie di simbolo felliniano, come la lupa in gabbia che ho messo nel libro. Racconta una regressione. Quel gabbiano, che divora topi e piccioni, si alimenta del sangue altrui. L’amministrazione di una città deve funzionare, ma non funziona nulla se la città è ripiegata su se stessa in un clima depressivo. Una città è un progetto. Si alimenta anche di talento, grandi eventi e distrazioni culturali”. Sono finiti i soldi. “Mommsen diceva che non si può stare a Roma senza un’idea universale”. E Virginia Raggi non ha un’idea universale, diciamo. “Secondo me un sindaco di Roma deve sapere qual è la differenza tra James Taylor e Shostakovich”. A Ostia si spara. Giovedì c’è stato un agguato in stile mafioso, è stato ferito il nipote di Carmine Fasciani, che secondo il tribunale è il capo di una cosca. Qualche settimana fa un criminale ha rotto il naso a un giornalista. “In città c’è la camorra. E questo richiederebbe un’alleanza tra le persone per bene di tutti gli schieramenti. Ma mi rendo conto che la parola ‘insieme’ oggi ha lo stesso valore di ‘pofferbacco’”.

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.