Roma, immobile da 96 appartamenti all'angolo tra via Marmorata e lungotevere Testaccio detto "Il Cremlino" (Carlo Broggi 1926)

Quelle cene tra Monti e Letta al Cremlino di Testaccio

David Allegranti

Scendono in campo i gemelli Derrick dell’establishment. Cosa hanno in serbo i due ex presidenti del Consiglio? 

Primavera romana, piazza dell’Emporio, il portone verde del Cremlino, palazzo degli anni Venti opera di Carlo Broggi, si apre. Ne esce Mario Monti, altero e professorale, però satollo e senza loden, ché il tempo non lo consente più. Nel bel palazzo dal soprannome sovietico di Testaccio, quartiere al contempo popolare e straborghese, ci sono due scale. Una di queste conduce a casa di Enrico Letta e della moglie Gianna Fregonara, da cui Monti è appena uscito dopo una cena. Che cosa si saranno detti? Avranno parlato di Parigi, da cui il professor Letta è appena tornato, dopo le sue lezioni all’Institut d’Etudes politiques? Oppure avranno detto che certe riserve della Repubblica, o quantomeno di Repubblica, non possono restare ai margini dell’impero e quindi devono riprendersi ciò che è loro?

  

Il Cremlino è, per natura evidentemente nominalistica, luogo di centralismo democratico, di sezioni di partito da sei-settecento iscritti (un tempo, almeno), di direzioni politiche informali ma sostanziali, in virtù dei suoi inquilini, visto che tra quelle mura abitano o hanno abitato Giuliano Ferrara, alcuni membri della storica famiglia comunista degli Amendola, Roberto De Santis, finanziere salentino amico di D’Alema, e Nicola Latorre, braccio destro di D’Alema, oggi senatore del Pd. Inquilini politicamente densi ma anche pittoreschi, visto che negli anni Cinquanta il palazzo era noto come “la tana del leopardo”, perché un suo stravagante inquilino, che pensava di poter vivere con bestie feroci in casa ed eleganti vestaglie, teneva nel suo attico un felino, il leopardo appunto, che un giorno sbranò il guardiano che gli dava da mangiare. Fosse stato un giaguaro, avrebbe reso perfetta la location – come va di moda dire oggi – per una fiction su Berlusconi e la sinistra.

  

Negli anni Novanta, era il 1997 quando si tennero le elezioni suppletive, in quel palazzo prospiciente il lungotevere, furono decise, nello stesso giorno, la candidatura di Antonio Di Pietro – a officiare il “gomblotto”, scoperto dal Messaggero, c’erano Massimo D’Alema e i due dirimpettai di scala, De Santis e Latorre – e quella di Ferrara, per sfidarsi nel mitologico Mugello. Nel 2017, vent’anni dopo, Letta e Monti si ritrovano per coordinare le proprie sortite. D’altronde già nel 2011, quando Monti era presidente del Consiglio e Letta vicesegretario di Bersani, ci fu uno scambio di pizzini, segnale di una corrispondenza di austeri sensi, via aule parlamentari: “Mario, quando vuoi – gli scrisse Letta – dimmi forme e modi con cui posso esserti utile dall’esterno. Sia ufficialmente (Bersani mi chiede per es. di interagire sulla questione dei vice) sia riservatamente. Per ora mi sembra tutto un miracolo! E allora i miracoli esistono!”.

    

A Letta non dispiacerebbe dunque un nuovo miracolo: il partito dell’establishment lettian-montiano contro il patto Renzi-Berlusconi, contro la legge elettorale proporzionale alla tedesca partorita da Pd e Forza Italia, e contro le elezioni anticipate. Da qualche settimana Letta e Monti sono tornati. Sui giornali, tra Corriere e Repubblica, è un florilegio di interviste e dichiarazioni. Ieri ce n’era una sul quotidiano di Largo Fochetti del professor Monti in cui l’ex presidente del Consiglio elargiva consigli di economista mixati a osservazioni di natura politica: “Io non vedo una sola ragione valida per ricorrere alle elezioni anticipate, in una situazione come quella italiana. Che qualcuno voglia tornare a fare il presidente del Consiglio può essere una legittima ambizione personale, non certo una ragione valida per anticipare il voto quando vi è un governo che lavora con dignità ed è meno incline all’azzardo del governo precedente. L’opinione pubblica italiana, secondo me, accetta troppo facilmente che i politici spesso non agiscano nell’interesse del paese ma mirino al loro potere personale”. L’Italia, ha poi aggiunto Monti, “è in una fase delicata, dopo aver superato l’emergenza finanziaria”. Letta, il giorno prima, aveva usato identiche parole al Corriere: “Tra votare e avere un governo, la legge di Stabilità e la correzione dei conti pubblici slitterebbero all’anno prossimo. Per interrompere una legislatura serve una spiegazione, non si può dare l’idea che si cerca una rivincita del 4 dicembre. Trovo questa dinamica bizzarra”. 

 

La presenza mediatica di Monti&Letta è sapiente, distribuita, onnicomprensiva, sono i gemelli Derrick di Holly&Benji, quelli che si esibivano nella catapulta infernale. Corriere e Repubblica li alternano come interlocutori privilegiati, per lo sguardo d’élite sul mondo. Un po’ di Monti, un po’ di Letta, poi spunta una fotografia di D’Alema (e pure qualche intervista con il Conte Max non manca, e va pure detto che di solito sono anche parecchio commentate da parte di chi non vuole commentare D’Alema, renziani compresi). Poi di nuovo Letta, a “DiMartedì”, all’Espresso, di nuovo al Corriere, a ruota libera su populismo, Europa, Renzi e rignanesità varie. Poi di nuovo Monti, a “DiMartedì”, all’HuffPost, a Repubblica. E via così. Il partito dell’establishment “lodenese” s’affaccia, si riunisce e cena al Cremlino – più volte, raccontano – per stoppare il boy scout di Rignano e il Cav. Se una volta si è stati presidenti del Consiglio, perché non riprovarci visto che il proporzionale allunga la vita dei riservisti ed eventualmente, causa ingovernabilità, può pure sottrarli al confronto popolare? Siamo pur sempre una bella democrazia parlamentare, e Letta&Monti possono sempre sperare nel ripescaggio di Sergio Mattarella.

  
Se ai tempi c’era la crostata con cui siglare celebri patti, stavolta c’è da immaginarsi l’apoteosi del foie gras francese importato. Poche settimane fa Letta e Monti erano perfettamente sincronizzati contro Renzi sull’austerity. “Negli ultimi anni – ha detto l’ex premier più giovane a “In 1/2 Ora” – è stata raccontata una storia non vera: la linea dell’austerity ha caratterizzato l’Europa dal 2008 fino al 2014, ma dal 2014, da quando è arrivato Juncker e con la politica espansionista di Draghi, l’Italia ha avuto margini di flessibilità molto larghi e la politica di Draghi ci ha consentito di risparmiare 33 miliardi sul costo del debito. A forza di raccontare la storia che era cambiata l’Italia, il governo non ha fatto tutte le scelte che doveva e ora si trova davanti a una manovra che è quella da cui noi uscimmo all’inizio della legislatura. Qualcosa non ha funzionato”. Il giorno dopo, ecco l’ex premier meno giovane a “Otto e Mezzo”: “Lo penso e l’ho ripetuto più volte dal 2014 che l’Italia ha usato molto male la flessibilità che le è stata data dall’Europa, Letta ha perfettamente ragione”. Tutto il potere al Cremlino!

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  • David Allegranti
  • David Allegranti, fiorentino, 1984. Al Foglio si occupa di politica. In redazione dal 2016. È diventato giornalista professionista al Corriere Fiorentino. Ha scritto per Vanity Fair e per Panorama. Ha lavorato in tv, a Gazebo (RaiTre) e La Gabbia (La7). Ha scritto cinque libri: Matteo Renzi, il rottamatore del Pd (2011, Vallecchi), The Boy (2014, Marsilio), Siena Brucia (2015, Laterza), Matteo Le Pen (2016, Fandango), Come si diventa leghisti (2019, Utet). Interista. Premio Ghinetti giovani 2012. Nel 2020 ha vinto il premio Biagio Agnes categoria Under 40. Su Twitter è @davidallegranti.