Gianfranco Fini (foto LaPresse)

La destra c'est Fini

Salvatore Merlo

Accuse, sequestri e rimpianti. Il gollismo italiano si è fermato a Montecarlo (a casa Tulliani)

Roma. “Trent’anni fa, di questi tempi, andavamo in giro per l’Italia a bordo di una Ritmo bianca diesel. Era giugno del 1987 e lui si candidava contro Rauti a segretario del Msi. Sarebbe stato eletto di lì a poco. Ma chi me lo doveva dire a me che finiva così?”, dice in romanesco bonario Checchino Proietti, lui che per trent’anni è stato il Sancho Panza di Gianfranco Fini, l’autista, il confidente, l’amico, il segretario particolare, il tuttofare. “Chi me lo doveva dire a me che finiva così?”. E infatti ieri la procura di Roma ha sequestrato un milione di euro in polizze vita a Fini. E d’improvviso l’accusa ritorna, riprende quota, vigore, riesplode tra chiacchiere e veleni, in televisione e su internet, e sembra incastrare l’ex presidente della Camera: la casa di Montecarlo venduta al cognato, la correità sospettata con la giovane moglie Elisabetta Tulliani e la famiglia di lei, il dubbio losco e impensabile del riciclaggio di denaro, le amicizie pericolose, gli “affari” con il re dei videopoker Francesco Corallo, le accuse del pluri-inquisito Amedeo Laboccetta, le tonnellate di fango, i fischi e le urla di giubilo di molti uomini che pure grazie a Fini hanno fatto lunghe e importanti carriere in politica. “Ma io non ci credo. Non ci posso credere. E finché non ci sarà un processo che dirà il contrario continuerò a non crederci”, dice Fabio Granata, che negli ultimi anni, dopo lo scioglimento di Alleanza nazionale, era stato il parlamentare che forse più di tutti incarnò la svolta repubblicana e laica di Fini, prima ancora del “che fai mi cacci”, e della rottura violenta con Silvio Berlusconi. “Se le accuse a Fini sono basate sulle dichiarazioni di Laboccetta, come potrei mai crederci?”, sussurra Granata. Tuttavia pare ci credano i pubblici ministeri di Roma. Pare.

E in questa vicenda, è chiaro, c’è una biografia che si macchia e c’è una storia politica che si degrada, la storia di un uomo che nel bene e nel male è stato uno dei cardini su cui ha ruotato l’intera Seconda Repubblica, dal 1994 in poi. L’uomo che per una travagliata stagione, dentro quell’illusione che si chiamava Pdl, per un attimo incarnò la vaghezza di una destra repubblicana, laica, europeista, aperta sulle questioni dei diritti civili e dell’immigrazione. Tutta una vicenda che s’è sporcata, e continua a sporcarsi, tra insinuazioni, sequestri, avvisi di garanzia, volgarità e violenze tra consanguinei (“suggerirei a Fini di spararsi”, ha scritto ieri Francesco Storace su internet), vendette, risentimenti, giornali di destra che manganellano e maramaldeggiano verso l’ex nemico che affoga. Un intreccio che sembra ispirato a un romanzo, sospeso tra Maupassant e Thackeray, tra l’epopea degli arrampicatori sociali – la giovane bionda moglie che promuove il suo clan famigliare – e quello del potere che si logora, si esaurisce, e precipita nel più profondo dei sottoscala, tra i frizzi e i lazzi della plebe eccitata dal sangue. E con gli amici, gli ex collaboratori, i clientes di un tempo più felice, che si contorcono nel dubbio, si dividono, colpevolisti e innocentisti: “Fini non è un coglione”, sentenzia allora Checchino Proietti, “non è uno al quale le cose si fanno sotto il naso. Davvero non sapeva di Montecarlo? Come non sapeva quello che succedeva nel 2006, ai tempi di Vallettopoli? Il suo problema è un altro. E’ che si è sempre sentito al di sopra di tutto e di tutti. Intoccabile. Sapeva, ma si girava dall’altra parte. E questo io l’ho sperimentato di persona quando scaricò me, il suo portavoce Salvo Sottile e persino la sua ex moglie Daniela. Vedrete che l’indagine non finisce qua. Ci saranno altre cose, è una vicenda giudiziaria che si arricchirà sempre più di nuovi torbidi elementi”.

Ma il declino personale e politico di Gianfranco Fini, già segnato in termini definitivi dal tonfo elettorale del 2013, da quelle elezioni su cui era già precipitata la storiaccia di Montecarlo, non è tanto e non è solo materia giudiziaria. Con lui tramonta infatti, e nel peggiore dei modi, l’ipotesi di una destra normale, “una destra che non urla, impermeabile a derive radicali e inquinanti, alle spinte estremiste, anche solo sul piano verbale”, dice per esempio il professor Alessandro Campi, che fu tra gli intellettuali che credettero possibile una destra gollista in Italia, il paese che si preparava invece per le ruspe, le felpe e i vaffa di Grillo. “E’ il sistema politico nel suo complesso che ha espunto qualsiasi ipotesi di riformismo di destra”, dice Campi. “Fini ha perso. Ed è una storia ormai chiusa. Ma la destra ‘normale’ noi non ce l’abbiamo perché le personalità in grado di maneggiare quel codice dispiacciono. Prendete Stefano Parisi. Berlusconi lo ha bruciato, e se può gli preferisce Del Debbio”. E il paradosso è che oggi la destra più europeista, e normale, è questa. E’ il Cavaliere.

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.