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“Così siamo arrivati alla fine del governo Campo Dall'Orto”

David Allegranti

Guelfo Guelfi, consigliere del cda Rai in quota Renzi, ci spiega come si è arrivati alla rottura. Tra buone idee, politica ed errori

Roma. Guelfo Guelfi, membro del cda Rai in quota Pd, è l’unico ad aver votato a favore del piano per l’informazione proposto dal dg Antonio Campo Dall’Orto, ormai sull’uscio di Viale Mazzini. Il che, tuttavia, non gli impedisce di analizzare criticamente il rapporto fra il quasi ex direttore generale e il resto della governance Rai. Il problema, secondo Guelfi, sta proprio nel rapporto, non trasparente, fra Campo Dall’Orto e il cda. Un cda, ricorda il consigliere vicino a Renzi, “eletto dal Parlamento secondo la vecchia gloriosa legge Gasparri”. La storia è questa: “Le forze politiche portano i loro candidati, il Tesoro sceglie un suo rappresentante, il cda poi elegge un presidente. Nel frattempo, al governo del paese c’è un giovane di Rignano sull’Arno, Matteo Renzi, dotato di carica riformista accelerata. Quindi, mentre noi veniamo eletti, il Parlamento vota un nuovo assetto, voluto da Renzi, che dà ampi poteri e una certa rilevanza al direttore generale, trasformandolo in un amministratore delegato. Metà del cda, lo ricordo, non può ricevere alcun compenso, mentre l’altra metà viene pagata, anche se non lautamente come in altre stagioni, 67 mila euro l’anno. Il cda è dunque composto di due parti; una anziana, di volontari, come quei pensionati che la mattina vedi vicino alle strisce pedonali davanti la scuola, e una parte retribuita. La partita è veloce perché il dg Antonio Campo Dall’Orto è competente, giovane, e assume l’incarico pensando di adempiere a una grande trasformazione, trasformando la Rai da broadcaster a media company, cioè un’azienda capace di creare su piattaforme diversificate prodotti editoriali, che vanno dall’informazione all’intrattenimento, all’infotainment”.

  

“Il piano industriale che viene approvato dal cda nel primo semestre della nostra vita – dice Guelfi – è un piano molto importante e ambizioso. Si tratta di mettere la Rai al pari delle grandi aziende di comunicazione radiotelevisiva europee, con la differenza che la Bbc riceve in totale 6 miliardi e 500 mila euro, mentre in Italia la Rai ha a disposizione 2 miliardi e 400 mila euro”.

 

Pilastro del piano industriale è la riforma della direzione dell’informazione. Per adempiere a questo progetto, si forma una direzione propria, affidata a Carlo Verdelli, che crea un suo staff. Ed è qui che, spiega Guelfi, nascono i problemi. “Da quando il piano viene annunciato a quando viene presentato passa circa un anno. Si verifica così la prima grande difficoltà, il primo grande errore, il primo grande equivoco. Campo Dall’Orto ha pensato che questo progetto potesse nascere nella riservatezza di alcune stanze al settimo piano della Rai, con una sorta di diffidenza di relazione con il cda”. Insomma, dice Guelfi, “non c’è stata una relazione confidente, di fiducia partecipata, tra noi e il dg. Un elemento che ha covato sotto la cenere e ha portato alle contraddizioni che sono esplose oggi”.

 

Nel percorso di realizzazione del piano, oltretutto, sono accadute due cose significative. “Prima che il piano fosse approvato c’è stata una fuga di notizie, una copia del piano è stata sottratta e pubblicata dall’Espresso, generando tensione e anche un esercizio di critiche da parte di molti. Il confronto dunque s’è fatto drammatico”. C’è poi un secondo errore. “La direzione della Rai non si è impegnata in maniera molto determinata in difesa di Carlo Verdelli, che non si è sentito sufficientemente protetto e sostenuto, e si è dimesso. Qui sta l’origine del male”.

 

Insomma, ma perché Guelfi ha votato a favore? “Ho votato sì perché sono convinto che gli indirizzi contenuti nel piano di Verdelli fossero una sfida piena di significato. E io non ho dimenticato quel significato, malgrado le vicissitudini. Non posso dire che i miei utenti sono vecchi e poi non fare niente per avere utenti giovani; non posso segnalare il mio ritardo sul digitale e poi non produrre una direzione digitale all’altezza. Vorrei ricordare un dato: durante l’elaborazione del piano, sono state prodotte 196 ore di edizioni straordinarie dei tg e la Rai non è stata seconda a nessuno. I telespettatori hanno restituito indici di ascolto e partecipazione che non si vedevano dai tempi dei tempi. Da Montalbano alle finali di calcio, al ciclismo, a Bolle, a Mika. Questi prodotti sono stati largamente apprezzati e consumati”.

 

La Rai dunque funziona. Però c’è una “contraddizione che non tiene uniti tutti i passaggi tra la direzione generale e il cda; una contraddizione che non produce sintesi”. Non dimentichiamo poi “le strumentalizzazioni”, frutto “di un’iniziativa populista forte nel nostro paese. Questo populismo produce speculazione e bugie”. E pervade tutto, aggiunge Guelfi, “comprese le vicende Rai”. E’ il caso del tetto da 240 mila euro. “Sappiamo che un prodotto televisivo che sta sul mercato, che fa ascolti e raccolta pubblicitaria, si fonda sulla bravura di professionisti che costano più di 240 mila euro. Proprio ieri (lunedì, ndr) stavamo stabilendo dei criteri di deroga alla legge, che c’è e viene rispettata, da presentare all’azionista di riferimento. Insomma, una griglia con cui stabilire le deroghe per trasmissioni o mansioni autoriali di un certo tipo”.

 

Certe sortite di Michele Anzaldi sono state un problema? “Anzaldi fa Anzaldi da tanti anni e con metodo. Io penso che il sistema dell’informazione, anche in Rai dovesse attraversare una valutazione sui risultati, perché un conto è trattare la questione dei vaccini come ha fatto Alberto Angela, da vero servizio pubblico, un altro è come ha fatto ‘Report’. Noi avremmo voluto avere una interlocuzione con le direzioni di rete, che però non c’è stata, non per creare gabbie ma per conoscersi e riconoscersi, per condividere i modi con cui procedere: il giornalista d’inchiesta è quello che produce il sospetto o documenta un’accertata violazione? Si ha l’impressione che la paura sia ormai diventata uno strumento”. In definitiva, dice Guelfi, è accaduto questo alla Rai in questi ultime due anni: “La funzione principale, prioritaria, degli strumenti di governo non è aggravare le contraddizioni ma scioglierle. I contenuti della Rai finora sono stati buoni, i risultati ottimi, ma sono anche convinto della debolezza del processo di direzione dell’azienda. Nessuno si è fidato di nessuno. E invece se ci dovevano essere degli scontri, anche pubblici, dovevano essere noti gli obiettivi che si andavano scontrando”.

 

Viene da chiedersi se, vista la centralità della Rai nel progetto renziano, non si possa parlare di fallimento. “Durante i mille giorni di governo Renzi si è prodotta una legge che puntava a rendere la Rai efficiente. Questa direzione ha fatto molto per raggiungere l’obiettivo, ma si è impallata ed è stata incapace di portare a sintesi questo lavoro, per il quale servono due capacità: quella del progetto e quella della relazione. Non esiste nessun progetto nobile che sta in piedi se non persuade, se non convince, se non attrae anche le aree più difficili da convincere. Ma non siamo all’anno zero. I conti sono in ordine e le trasmissioni vanno bene. Ora confido che le forze politiche sappiano porsi il problema della guida della Rai in tempi rapidi e confido che il cda, volontario o di mansione, abbia il senso di responsabilità per non mollare la presa e tenera aperta la discussione”.

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  • David Allegranti
  • David Allegranti, fiorentino, 1984. Al Foglio si occupa di politica. In redazione dal 2016. È diventato giornalista professionista al Corriere Fiorentino. Ha scritto per Vanity Fair e per Panorama. Ha lavorato in tv, a Gazebo (RaiTre) e La Gabbia (La7). Ha scritto cinque libri: Matteo Renzi, il rottamatore del Pd (2011, Vallecchi), The Boy (2014, Marsilio), Siena Brucia (2015, Laterza), Matteo Le Pen (2016, Fandango), Come si diventa leghisti (2019, Utet). Interista. Premio Ghinetti giovani 2012. Nel 2020 ha vinto il premio Biagio Agnes categoria Under 40. Su Twitter è @davidallegranti.