Antonio Campo Dall'Orto (foto LaPresse)

La Rai che non fu

Andrea Minuz

Il rinnovamento forse era un’illusione. Analisi delle cose fatte e non fatte da Antonio Campo Dall’Orto

“Non invecchiare con la generazione che hai allevato”. Così recitava il motto sfoggiato da Campo Dall’Orto al suo arrivo in Rai, nell’estate del 2015, poco meno di due anni fa. L’anno in cui la Rai sarebbe diventata pop. Un motto che sapeva di rischio, avventura, futuro, discontinuità. Eravamo tutti su di giri per lo sbarco del modello “Mtv” a viale Mazzini, il vento di Milano-Londra-New York che soffia impetuoso sulle sonnolenze romane, un manager masterizzato a Publitalia, osannato alla Leopolda, distante anni luce dalle nomenclature del partito della Rai. Perché il futuro a volte arriva così, all’improvviso. Poi il futuro è passato e non ce ne siamo neanche accorti. Niente piano news, media company, digitalizzazione, sperimentazione sui nuovi linguaggi. Addio sfide lanciate a Google e Netflix. Addio radicale, emtivvìstica “discontinuità”. Addio Rai pop. “Torniamo all’antico, sarà un progresso”, come recita un celebre adagio verdiano che dovrebbero incidere nell’atrio di tutti gli uffici statali, accanto al ritratto di Mattarella.

 

"Non invecchiare
con la generazione
che hai allevato",
il motto sfoggiato
al suo arrivo come direttore generale, nell'estate 2015

“Questa Rai non ha una visione, non è un servizio pubblico di cui possiamo andare orgogliosi perché abbiamo polemiche continue”, diceva il ministro Alfano qualche mese fa. Il suo, precisava, era “un giudizio da contribuente che paga per vedere scene che non sono da servizio pubblico”. Ma quali sono le scene da servizio pubblico? Da Gubitosi a Campo Dall’Orto, passando per il piano Verdelli, sembra che non sia servizio pubblico riformare il piano dell’informazione, ridurre le redazioni, snellire le sedi regionali, la vera, insopprimibile zavorra della Rai, portare i giornalisti da 1.400 a 1.100 tramite prepensionamenti e altri scivoli, provare così ad abbassare l’età media degli strutturati Rai (una delle più alte nel mondo delle aziende televisive). Un’innovazione impraticabile, secondo molti, a cominciare da Carlo Freccero che bocciò il piano Verdelli dicendo che “gli mancava l’esperienza sul campo”. Forse bisognerebbe partire dal fatto che voler ridurre il numero di giornalisti della Rai è più o meno come chiedere ai tassisti di sposare la causa di Uber. Non è da lì che si passa, non ora. Prima di “liberare la Rai dalla politica”, qualsiasi cosa voglia dire, sarebbe già molto provare e rivedere la logica delle vecchie lottizzazioni. Nel frattempo, ci siamo già dimenticati dell’agenda Campo Dall’Orto ma ci ricordiamo della surreale vicenda Perego, dei pruriti di Magalli, dei vaccini di “Report”, di un Sanremo rilanciato con Totti e Maria De Filippi, dei pastrocchi di “Ballarò”, “Politics”, della piattaforma digitale da affidare a Milena Gabanelli, delle polemiche sul tetto-stipendi, dei fuori onda di Insinna. Tutte cose che però raccontano di un malessere più profondo, quello di una televisione generalista, Rai o Mediaset, di cui ci accorgiamo solo per le polemiche, le ingerenze politiche e partitiche, gli incidenti, la povertà di idee degli autori e dei format.

 

Una line up innovativa
e una modernizzazione dei contenuti, con un ricambio del palinsesto del 32 per cento.
Alti rischi di fallimento

Eppure Campo Dall’Orto ci ha provato. Un nuovo claim che riposizionava il vecchio “Di tutto, di più” – ottimo per le offerte nelle bancherelle – in “Per te, per tutti”, uno slogan studiato per aderire al modello di società digitale con dentro quantomeno la volontà di immaginare nuovi target (“il fatto che la società sia fondata più sull’individuo”, diceva CDO, “non vuol dire che non siamo più animali sociali, anzi il servizio pubblico ha in questo senso il vantaggio di far raccogliere le persone intorno a noi”). E’ arrivata finalmente una grafica coordinata per tutte le reti Rai, un design visivo riconoscibile e uniforme con dentro l’eco della Mtv dei primi anni duemila. E’ stata messa in piedi una line up innovativa e avviata una modernizzazione dei contenuti, con un ricambio del palinsesto del 32 per cento, assumendosi così alti rischi di fallimento, come nel caso eclatante di “Politics”, un errore che ha messo in crisi gran parte dei buoni propositi di CDO, ma si sono anche creati nuovi spazi. E’ probabilmente la Rai 2 di Ilaria Dallatana il canale che ha funzionato meglio. “Il collegio” è stato uno dei migliori programmi della stagione, un reality di ultima generazione, un format d’importazione calato in modo efficace nel contesto italiano. “Un buon punto di partenza”, diceva Aldo Grasso, per far proprio “il compito che il servizio pubblico ha dato a Rai 2, ovvero riavvicinare alla Rai gli spettatori più giovani”. Un compito non facile nel momento in cui anche Snapchat punta ad avere una sua televisione. Meno efficace “Meglio tardi che mai”, il rehab giapponese con Claudio Lippi, Edoardo Vianello, Lando Buzzanca e un formidabile Adriano Panatta, messi dentro una versione “Cocoon” di “Pechino Express”, con momenti esilaranti alternati a stalli beckettiani. Sul piano della fiction, “La porta rossa” è stato un tentativo più o meno riuscito, ma pur sempre un tentativo di muoversi dentro un genere come il thriller fantastico distante anni luce dal canone italiano, tra “Ghost”, “Il sesto senso”, “Hereafter” riletti da Carlo Lucarelli & Co. Anche “Rocco Schiavone” può essere un piccolo passo per la nostra fiction ma un grande balzo in avanti per la rete.

 

 

Così Campo Dall’Orto si trincera dietro i numeri (che gli danno ragione), punta l’indice contro le paludi della politica e abbandona la Rai indicandoci il punto archimedico, il senso e la missione ultima della televisione di Stato. E qui crolla tutto. “Questo è servizio pubblico, questa è la Rai che merita canone”, dice commentando la serata televisiva in ricordo di Falcone e Borsellino, costata più del doppio della cifra messa a bilancio (da ottocentomila euro a un milione e sette), salutata da tutti come un successo stratosferico, anzi di più una ritrovata identità. Perché? Confrontando le idee di servizio pubblico, qualcosa non torna. Nel 2015 era servizio pubblico “accompagnare le persone in un nuovo mondo provando non a diffondere un normale e ormai straconosciuto alfabeto ma anticipando nuova forma di alfabetizzazione” (copyright Campo Dall’Orto). Due anni dopo, è l’antimafia di Pif, Fazio e Saviano. E vai con don Ciotti che inveisce contro “il crimine economico”, spiega l’importanza del “bene comune”, tuona contro una “peste chiamata corruzione” puntandoci l’indice dal pulpito dell’albero di Falcone. Vai con i palloncini bianchi che salgono in cielo, il commissario Montalbano, Fabio Fazio che si muove nello studio ricostruito del Dottor Falcone. Vai con la messa laica e i salmi cantati da Vittoria Puccini e Isabella Ragonese, vai con Carmen Consoli che canta sul balcone in quota “primo maggio”, “Povera patria” fatta da Fiorella Mannoia, Ottavia Piccolo nell’aula bunker di Palermo dentro una versione brechtiana di “Un giorno in pretura”, vai con Placido che fa il picciotto, Beppe Fiorello che fa tutta la scorta, Favino che diventa il figlio di Borsellino. La serata in ricordo di Capaci e via D’Amelio è stato l’abbraccio, anzi la trattativa tra la tv di Fabio Fazio, Rai Cinema e il film italiano “d’interesse culturale”, uniti in matrimonio con rito civile da Roberto Saviano. Sono queste le scene da servizio pubblico che mettono tutti d’accordo. Vogliamo l’impegno civile perché con l’impegno civile si può fare brutta televisione, senza ritmo, senza idee, come se non ci fosse un domani. Così, con l’ingrediente più semplice: il ricatto del contenuto. Perché se fai brutta televisione con la lista delle fidanzate dell’est si chiude il programma. Ma se la fai sulla mafia, non è mai brutta televisione, è televisione civile, e sulla televisione civile, inutile dirlo, crollano tutti.

 

Siamo sicuri che Falcone e Borsellino raccontati come una messa cantata siano
il miglior servizio pubblico che si possa fare?

Siamo sicuri che Falcone e Borsellino raccontati come una messa cantata siano il miglior servizio pubblico che si possa fare? A noi suona più che altro come una ritirata. Un modo per occultare e differire le sfide di una Rai sempre più intercambiabile con Alitalia, se non fosse per il canone in bolletta. Sfide che erano e restano ancora quelle messe sul piatto da Campo Dall’Orto. Però in Rai funziona così. Ognuno ha la sua idea di servizio pubblico. Ognuno la cambia in base alle oscillazioni del partito della Rai. “La Rai è la mia azienda, la mia vita, ci lavoro da trentatré anni e conosco tutti, ma oggi non è messa nelle condizioni di lavorare”, dice Fabio Fazio facendo diventare il proprio contratto l’emblema, la cartina di tornasole per ricostruire il significato del servizio pubblico che sta tutto in un tweet: “In una tv che cambia, bisogna assumersi responsabilità e nuovi rischi. D’ora in poi, ovunque sarà, vorrei essere produttore di me stesso”. La Rai c’est moi. Via tutti, quindi. Una fuga in massa dall’azienda, da Alberto Angela a Diego Bianchi, con Vespa, Carlo Conti e Giletti in forse. Ma incatenare il dibattito sul servizio pubblico attorno al tema del tetto-stipendi significa fare il gioco del populismo e spianare la strada a una Rai a cinque stelle, con un cda in mano a Travaglio, Antonio Ricci direttore di Rai 1, Peter Gomez a Rai 3 con carta bianca per Sabina Guzzanti. Un servizio pubblico con format di democrazia diretta e fiction in salsa antikasta, “Il commissario Di Battista”, “Un anno in pretura”, “Buttiamo le chiavi”, “Un medico antivaccini in famiglia”, Fedez e Jax presentano il Festival di Sanremo, dirige l’orchestra Moni Ovadia.

 

 

Ma qualunque cosa accada avremo sempre Roberto Saviano, la coscienza civile della nostra televisione. Saviano che unisce Rai e Mediaset, Falcone e Borsellino, l’antimafia e “Amici” di Maria De Filippi, Saviano nella commissione di vigilanza, Saviano all’Agcom, mentre chiude la prima stagione della sua serie televisiva su Gheddafi, “un avventuriero del deserto che diventa un tiranno spietato e selvaggio, un tiranno rockettaro”, come spiega illustrando il progetto pronto a partire per Palomar. In attesa di un Patto del Nazareno capace di sventare la costruzione di un mondo distopico non troppo irreale, bisognerebbe smettere di accanirci solo sull’esistente, fermarsi qualche istante e provare a immaginare come dovrebbe essere e cosa dovrebbe fare il servizio pubblico tra dieci, quindici anni, quando sarà impossibile spiegare a una nuova generazione di spettatori che “Uno Mattina” si fa col canone e “Mattino Cinque” con gli introiti della pubblicità. Vogliamo una Rai leggera, digitale, con un profilo da editore pubblico che genera contenuti destinati a varie piattaforme e dispositivi? Oppure ci auguriamo che la televisione resti per sempre quell’elettrodomestico da vedere seduti sul divano anche se i millennials sanno a stento come è fatta? Fino a quando potremo opporci per non smantellare o almeno ripensare i grandi studi di produzione, alcuni già ampiamente inutilizzabili? Le sedi regionali sono un valore aggiunto, come può esserlo la stampa locale nel mondo dei giornali, o funzionano in modo vecchio e assomigliano più che altro alle “Val D’Aosta News” di cui sbraitava Flavio Insinna?

 

 

Non c’è molta voglia di affrontare questi temi anche perché al momento gli ascolti tengono. Ma il destino del servizio pubblico e quello della tv generalista sono indissolubilmente intrecciati all’anagrafe degli spettatori. La prima mossa da compiere è di carattere culturale. Liberare il dibattito sul servizio pubblico dall’alternativa secca tra lo schieramento dei difensori a oltranza e quello dei contestatori, entrambi “poco inclini a considerare l’ampiezza e la complessità delle questioni che entrano in gioco quando si vuole ripensare il destino del servizio pubblico” (come scrive Massimo Scaglioni nel suo ultimo libro, “Il Servizio pubblico, morte o rinascita della Rai?”). La seconda, smettere di pensare che la Rai possa liberarsi della politica e al contrario inchiodare la politica alle proprie responsabilità: la costruzione di un servizio pubblico che catalizzi il meglio del sistema dell’audiovisivo italiano senza rinchiudersi nel mercato domestico.

 

Pensare di tenere fuori la politica dalla Rai
è una pretesa assurda, più irrealistica dei piani di rilancio di Verdelli
e Campo Dall'Orto

Avremmo voluto parlare delle novità della Rai nell’èra di Matteo Renzi, ma ci vorrà un bel po’ di tempo prima che si ricreino le condizioni per trascinare la Rai dentro l’innovazione o almeno provarci sul serio. Ma pensare di tenere fuori la politica dalla Rai è una pretesa assurda, ben più irrealistica dei piani di rilancio presentati da Verdelli e Campo Dall’Orto. La Rai è politica. E’ stata pensata, allevata, organizzata e coccolata dalla politica. La televisione di stato, in uno stato storicamente invaso, risucchiato e occupato dalla politica, non poteva che crescere e svilupparsi all’ombra dei partiti. Che almeno la politica faccia il possibile per guidarla verso l’innovazione occupandosi dei contrappesi e delle regole del gioco, più che dei contenuti e delle lottizzazioni, prima di gettare il servizio pubblico in pasto al populismo feroce della democrazia diretta.