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Cosa teme Renzi della partita sui referendum in Veneto e Lombardia

A Roma s’è sentita distante l’eco di una vicenda per ora estranea ai palazzi della Capitale, ma destinata a pesare in uno scacchiere invece decisivo: il Lombardo Veneto

Arriverà finalmente il 30 aprile, Matteo Renzi potrà dire di aver smaltito la fase penitenziale post-referendaria, un po’ di politica tornerà a muoversi dopo il congelamento imposto dalla conta interna al Pd.

 

A Roma s’è sentita distante l’eco di una vicenda per ora estranea ai palazzi della Capitale, ma destinata a pesare in uno scacchiere invece decisivo: il Lombardo Veneto. I governatori leghisti Maroni e Zaia marciano verso i rispettivi referendum autonomisti, tanto inconsistenti sul piano formale quanto promettenti sul piano propagandistico. Data decisa: il 22 ottobre. Quorum, non richiesto. Quesiti, diversi tra le due Regioni ma con lo stesso significato: agli elettori si chiederà di pronunciarsi pro o contro l’apertura di un negoziato col governo di Roma per il conferimento di maggiori poteri e competenze, tenendo sullo sfondo l’approdo allo statuto speciale.

 

Non avendo il referendum che valore consultivo, e apparendo insensato che si possa votare no all’apertura di un negoziato, l’intento leghista è esclusivamente politico: reintrodurre l’agenda federalista – da tempo abbandonata dallo stesso Salvini – nella lunga campagna elettorale verso il 2018, tra voto politico nazionale e scadenza dei mandati dei medesimi Maroni e Zaia.

 

La mossa potrebbe dare al centrodestra un vantaggio tattico, di qui la doppia contromossa dem. In prima battuta il Pd denuncia l’inutilità dei referendum e il loro costo, a fronte di negoziati sulla devoluzione per i quali palazzo Chigi ha già dato piena disponibilità. A seguire, l’orientamento prevalente nel Pd è di schierarsi comunque per il Sì, per annacquare ulteriormente l’evento.

 

Ci sono però due insidie, anzi tre, che dal Nord vengono segnalate al Nazareno.

 

La prima è tutta interna, e soprattutto lombarda: intorno al referendum di Maroni già si intrecciano i giochi su chi dovrà sfidarlo dal centrosinistra. Ed è una partita esclusivamente fra renziani: il numero due del suo ticket nazionale, ministro Martina; l’ex vicesegretario nazionale Guerini, da Lodi; il segretario regionale, Alfieri; l’attuale sindaco di Bergamo, Gori. Ognuno con atout da giocare, in particolare il primo (per ovvi motivi) e l’ultimo, capace di ricostruire rapporti con i corpi intermedi in una specie di gentilonizzazione locale del Pd, e soprattutto di farsi capofila della potente rete di sindaci lombardi a cominciare da quello di Milano. La partita fra loro, oltre che dal favore di Renzi, sarà decisa anche dall’abilità nel neutralizzare l’iniziativa dei leghisti, unici veri avversari in una regione fin qui Cinquestelle-free.

 

La seconda insidia – e già siamo a un problema più nazionale – è tenere insieme un eventuale Sì, ancorché tattico, e l’alleanza con una sinistra extra-Pd la quale, come s’è capito, punterà molto sulla Milano di Pisapia. L’ex sindaco è già stato duramente tranchant contro il referendum, e al momento giusto potrebbe denunciare con argomenti efficaci il tatticismo di allinearsi a una iniziativa della Lega.

 

Infine, il punto che a Roma fa più male.

 

La resurrezione del federalismo nordista finirà fatalmente per riaprire in casa Renzi la ferita del 4 dicembre. Perché per Salvini e i suoi sarà facile inchiodare i democratici a una evidente contraddizione: se in ottobre si schiereranno per la devoluzione di maggiori poteri a Lombardia e Veneto, lo faranno dopo neanche dodici mesi dall’aver condotto la madre di tutte le loro battaglie referendarie sulla posizione esattamente opposta, quella neo-centralista contenuta nella riforma Boschi. Il populismo light anti-regioni del “primo” Renzi gli si potrebbe ritorcere contro, danno collaterale differito di una stagione che invece sarebbe tanto bello poter dimenticare e far dimenticare.