Il direttore del Fatto Quotidiano, Marco Travaglio (foto LaPresse)

Fatto alla rovescia

Guido Vitiello

Servirebbe uno studio approfondito sull’estetica giacobina del giornale di Marco Travaglio

L’obbligo per i sudditi di abbracciare la fede del sovrano – cuius regio eius religio, pace di Augusta, 1555 – vale tuttora per certi giornali. Se non per la linea politica, quanto meno per lo stile, diciamo pure per le formule liturgiche; ed è una conversione più profonda e insidiosa. Infallibilmente, chi comincia a scrivere per il Fatto quotidiano finisce per scrivere male, scimmiottando quella maniera pedestre da Fortebraccio del Bagaglino di cui va così fiero il direttore. Questo pensavo leggendo l’altro ieri il commento sarcastico di Silvia Truzzi al discorso di Luciano Violante a Pisa, che fin dalla prima frase accordava il suo strumento su quello del principe regnante della testata: “Più che un participio, una certezza” – omaggio ai mille corsivi di Travaglio dove Violante è chiamato “il noto participio presente” o “voce del verbo violare”. L’ultimo è proprio di ieri: “Violare, violando, Violante”.

 

Strano come si capovolga nel tempo il senso dei giochi di parole, e come uno stesso calembour possa suonare spiritoso o stucchevole a seconda dell’eleganza di chi scrive. Rileggo un epigramma dell’avvocato Domenico Marafioti, “Nomina omina”, scritto nei primi anni Ottanta a commento della legge Mancino-Violante sulla nuova disciplina delle letture in dibattimento: “Mancino fa un tiro omonimo / al diritto di difesa. Lo spalleggia / l’avverso Violante anch’egli / indotto a violar le regole / del gioco. Non si tratta di poco. / Col pretesto della difesa sociale / stravolgono il processo penale” (inutile dire che nell’interminabile romanzo d’appendice della trattativa il Fatto non ha risparmiato variazioni sul “tiro Mancino”). Marafioti si definiva “poeta di complemento”, un reo confesso di “oltraggio alle Muse” con l’incubo di trovarsi “lacero e scalzo / al cospetto di un Tribunale / presieduto a turno / da Marziale e Montale”. Ma Sciascia lo ammirava come scrittore, e lo incoraggiò a pubblicare un libro di memorie – introvabile, ormai, com’è introvabile quella raccolta di poesie ed epigrammi, “Senza attenuanti”, stampata nel 1987 dalle Edizioni Porfiri.

 

Forse è venuto il tempo di ripercorrere il trentennio dal 1987 a oggi sub specie aestheticae. Perché si è detto fin troppo – seppure ben poco di essenziale – sull’estetica del berlusconismo e su quella (diversissima, ma confusa per sciatteria con la prima) del renzismo; ma ancora nulla sull’estetica promossa nello stesso periodo da giacobini, sanculotti ed enragés, che rischia di farsi egemonica o forse lo è già. Una catastrofe del gusto che non riguarda solo la cattiva prosa, il sarcasmo puerile e risentito di persone mai toccate dalla grazia dell’umorismo, e dunque dall’intelligenza. E’ una lunga storia, che si dovrebbe documentare e analizzare in tutte le sue tappe: l’incredibile malagrazia tipografica della prima stagione del Fatto (un poco attenuata, negli anni), la progressiva osmosi estetica tra il sito di MicroMega e l’abominevole blog di Grillo, le vignette di quart’ordine, i fotomontaggi ributtanti, la grande bruttezza prodotta dal dipietrismo, dal popolo viola e dalle agende rosse, e poi i film della Guzzanti, le copertine di ChiareLettere, i fotoromanzi imbastiti da Santoro sulle intercettazioni, le scenografie di certi talk-show… C’è una nuova “guerriglia semiologica” da combattere, ma prevedo molte diserzioni.

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