Marine Le Pen (foto LaPresse)

E ora schiacciare la bestiolina demagogico-populista

Giuliano Ferrara

Contro l’illusionismo dei Trump, Le Pen e sette grilline serve con urgenza un vero patriottismo europeo

Il Pd riformista, socialista europeo e liberale si deve reinventare. Sembra questo il compito di chi resta e non accetta il ricatto della vecchia guardia alleata con i marpioni e gli opportunisti di sempre. E’ il compito del segretario dimissionario che va a congresso, primarie e elezioni politiche, ma se ci pensino su senza automatismi d’apparato e di corrente, dovrebbe essere anche il compito dei Franceschini e degli Orlando, che non devono né fare i furbi né tenere lo strascico nuziale del boy scout fatale al quale alla fine la reinvenzione verrebbe delegata per intero, con rischi per lui e per loro e per quel che Pd che permane al di qua della linea sonora di Bandiera Rossa e altre bellurie veterobolsceviche. E’ finito il sentimentalismo tifoso dell’unità, si sono esaurite tutte quelle chiacchiere vischiose e inautentiche sui valori nelle quali si è impelagata la Repubblica, che vuole disperatamente vendere copie inutili a coscienze frementi di dolori inutili. La scissione dovrebbe essere considerata un fatto, non uno “scontro di potere” (espressione singolarmente stupida trattandosi di lotta politica) né, mi spiace per Walter Veltroni e il suo sentimentalismo inestirpabile, un rancoroso ritorno al passato invece che un altro grottesco “domani che canta”.

 

Un fatto, per dirla con Giacomo Matteotti, semplice semplice: i riformisti con i riformisti, i postcomunisti con i postcomunisti. Così come a destra Berlusconi dovrebbe sbrigarsi a dire alto e forte: i riformatori liberali e popolari con i loro simili, i mozzorecchi con i mozzorecchi. Nella modestia del mio piccolo impegno di cazzone che scrive su un bel giornale e passeggia a Belleville come Malaussène, l’eroe multiculti di Daniel Pennac, ecco la mia linea, che non è una linea ma un insieme di ideuzze obbligate. Il declino c’è e non c’è. I francesi lo sentono molto perché vengono non dai tre anni di Renzi e dei riformisti che hanno fatto un bel po’ di riforme e hanno subito l’incidente dell’accozzaglia, ma da cinque anni di naufragio hollandista; eppoi si sa, abitano il paese della grandeur, non possono accettare di non stare tra i primi nella classifica della crescita mentre il debito pubblico va verso il 100 per cento e il pieno impiego parla americano, inglese e tedesco, non spiccica una parola di francese.

 

Il malessere sociale c’è, e una tendenza neonazionalista e identitaria nel senso peggiore c’è, ed è normale visto che una parte di mondo cerca di uscire dalla miseria e un’altra parte (la nostra) risente delle conseguenze di una obesità di quelle pericolose, di quelle che inducono a pigrizia, scarsa produttività, increscioso piagnisteo (non è il mio caso, sia chiaro). Il malessere però c’è e non c’è, anche lui. Come in Grecia quando volevano cancellarsi i debiti unilateralmente e farne altri, via referendum e bombe molotov, anche in Francia si assiste a uno strano fenomeno: in molti fanno la riverenza a Mme Le Pen, ma quanto a uscire dall’euro, che è il suo programma e anche la conseguenza di una sua non impossibile elezione il prossimo aprile-maggio, qui sono tutti molto prudenti. Magari lo vogliono come scudo per proteggere il debito, che è la ragione sbagliata per volerlo, ma lo vogliono bene in carne, l’euro. Suvvia, noi che scriviamo sui giornali abbiamo il dovere di non credere a quello che c’è scritto nei giornali (ooops!).

 

Quello che invece c’è è l’illusionismo di Trump a Washington, uno che a forza di balle demagogiche ha convinto centomila elettori del Midwest rugginoso e deindustrializzato a dargli la palma della vittoria nel collegio elettorale, mentre tre milioni in più di americani votavano per la poco amata erede della dinastia Clinton; uno che con la sua corte di consiglieri evoliani (Julius Evola era a suo modo un maestro della tradizione, questi sono allievi incompetenti) scambia la Svezia per il Pakistan, e davvero pensa e dice che a Stoccolma venerdì ci sono stati ottanta morti in un attentato, e questa è solo la più divertente e macabra delle sue mille castronerie del primo mese in esercizio. C’è poi il fatto che la Gran Bretagna prova la navigazione d’alto mare, e bisogna venire a patti con un’isola che la Manica divide da sempre dall’Europa, ma meno di quanto non si pensi. E c’è Putin, un bravo ragazzo di buona scuola kagebista, uno che è maturato nel tentativo di restituire dignità e senso della nazione ai russi travolti da settant’anni di comunismo ateo e materialista (oh mio Dio!), uno che il realismo di noi cinici lo vorrebbe comprendere anche nel suo eticismo ortodosso-slavonico. Ma ha il vizietto. Il vizietto espansionista.

 

Non resta che il patriottismo europeo. Ne ha dato una buona definizione, in una intervista lucida al Figaro di sabato scorso, Nicolas Baverez, un economista che i lettori del Foglio hanno imparato a conoscere: con l’eventuale elezione di Marine Le Pen si produrrebbe “una tragedia per l’Europa, che assisterebbe all’esplosione di una costruzione storica senza precedenti nella storia umana: nazioni che si uniscono intorno alla libertà politica, all’economia di mercato e alla solidarietà, e non alla dominazione imperiale o all’occupazione militare”. L’Europa l’aveva fatta un generale romano famoso, Cesare il protoKaiser, a suo modo; poi barbari piuttosto agitati; poi imperatori e papi nella cristianità, a loro modo; poi Napoleone e i nazionalismi più o meno imperiali, a loro modo; infine ci fu il tentativo di Hitler, diciamo a suo modo.

 

Ecco, patriottismo europeo vuol dire prima di tutto riscoprire il rimosso, il fatto che al di là di burocrazie e minuzie e errori legati alla gestione della sovranazionalità intergovernativa, al di là di gravami sociali ed economici derivati dal peso sulle classi medie europee del riequilibrio imposto da globalizzazione e digitalizzazione dell’economia, da sessant’anni nell’Europa uscita dai fascismi e dai nazismi si costruisce un modello di democrazia e di integrazione senza precedenti e irrimpiazzabile se non a costi tragici. Giù le mani da questa Europa della libertà e della solidarietà, che è erede del secolo americano (sono venuti loro a salvarci due volte da noi stessi, imbambolati da demagoghi con seguito di massa), che è erede e promotrice del meglio del vecchio lavoro umanista della cultura e della politica occidentali. Non fosse questo l’articolo uno del congresso del Pd, delle primarie e della campagna elettorale per schiacciare la bestiolina demagogico-populista cosiddetta, con un risveglio di orgoglio politico e di realismo pratico-morale, con un programma di riforme capace di creare ricchezza lavoro produttivo e correzione delle ineguaglianze contro il mito dell’eguaglianza assoluta, a che servirebbe riunirsi discutere e chiedere passione e voti?

 

Un alleato americano fattosi insidioso e mattocchio, fuori controllo. Una Russia prepotente e impicciona. Un’orda di barbariche paure sociali alimentate dal carnaio mediorientale, dall’islam politico, da una immigrazione incontrollata, dalla concorrenza dei paesi extraeuropei ormai ipercompetitivi e dal terrorismo dispiegato: ci vuol altro per tornare a considerare l’Europa non il disastro di Bruxelles, non un centro finanziario poco democratico, sempre più percepito con oscure venature antisemite come una lobby di élite lontane (fuori dall’euro e gli ebrei si tolgano la kippa, dice Madame), ma il baluardo dell’unico mondo in cui ci piace vivere? Poi si può innovare e cambiare e sorprendere anche su nuovi fronti. Pare che Bill Gates chieda una tassa sui robot, guarda tu, e Elon Musk, il riccone che ci vuole portare su Marte, vuole anche lui il reddito garantito per tutti. Ci sono anche riforme meno glamour e forse più sensate. Basta che non ci limitiamo alla lagna sui vitalizi, basta che la sinistra di governo, e Berlusconi per la sua parte, facciano la loro onorevole competizione, le loro alleanze anche con gli scissionisti di ogni risma e tempra, ma che la piantino di farsi subornare dai polls e si guardino dall’inseguire i successi presunti di quei formidabili amministratori della cosa pubblica e competenti uomini e donne di stato che sono i seguaci della setta Casaleggio Associati. G

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  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.