Matteo Renzi (foto LaPresse)

La scissione è meglio della malattia

Claudio Cerasa

Nonostante le aperture Renzi ha mosso un passo verso una direzione che potrebbe avere un futuro: quello già intrapreso in Francia da Emmanuel Macron.

Le coordinate sono quelle giuste e Matteo Renzi, aprendo la fase congressuale del Pd, ieri le ha messe in fila una dopo l’altra, partendo da un problema non banale: un partito che vuole provare ad avere un profilo alternativo a quello scelto dai movimenti anti sistema, che caratteristiche deve avere per stare al passo con la storia e sfidare i populismi? Il segretario dimissionario ha spiegato che il congresso deve aiutare il Pd a diventare un partito sempre più inscritto nel perimetro delle forze politiche tendenti all’apertura e giustamente ha ricordato che la fase che si aprirà, da qui ai prossimi mesi, dovrà servire a costruire un’alternativa al lepenismo, al trumpismo e al grillismo.

 

Le coordinate sono dunque quelle corrette, ma c’è un dettaglio che rende diversa la fase che si apre oggi rispetto a quella che si aprì quattro anni fa, ai tempi della sfida tra Renzi, Cuperlo e Civati.

 

Quattro anni fa il Pd era un partito che cercava di completare un percorso che si era aperto nel 2007 al momento della sua formazione, quando i padri fondatori democratici scelsero di costruire il nuovo soggetto politico “per rappresentare lo sviluppo e la realizzazione dell’Ulivo come soggetto e progetto di centrosinistra nel quadro di un bipolarismo maturo”.

 

Oggi, come ha ricordato la scorsa settimana su queste colonne il professor Michele Salvati, quel progetto di Pd non esiste più e la vocazione maggioritaria del partito è stata messa a dura prova non soltanto dal risultato del 4 dicembre ma anche da alcune dinamiche che hanno distrutto un partito che doveva essere costruito per governare l’Italia e che invece oggi sembra essere costruito solo per governare le correnti. La corsa di Renzi verso la riconquista del Pd non dovrebbe presentare grandi ostacoli dal punto di vista del consenso personale, ma potrebbe essere viziata da una questione irrisolta che ha riguardato buona parte degli anni trascorsi da Renzi alla guida del Pd: non essere riuscito a trasformare fino in fondo l’identità del più grande partito della sinistra per paura di creare un big bang all’interno della classe dirigente del Pd. Negli ultimi quattro anni, gli avversari di Renzi hanno tentato così di trasformare ogni battaglia culturale – dal Jobs Act alla riforma costituzionale – in un mini congresso permanente e da parte sua il segretario non è riuscito a disinnescare le mine che si è ritrovato ad affrontare anche durante i mille giorni al governo.

 

Le settimane che seguiranno saranno caratterizzate da un naturale e stavolta fisiologico scontro tra le anime del partito, ma una volta conclusasi la fase congressuale la paura della scissione del Pd non potrà più essere l’alibi per tenere incatenato un paese. Nonostante le parole di apertura scelte ieri in direzione per esorcizzare la Supernova del Partito democratico – “A chi dice vattene, rispondo venite” – il segretario dimissionario ha mosso un passo verso una direzione che potrebbe avere un futuro, ufficializzando che lo slogan che verrà utilizzato per declinare la campagna elettorale per la segreteria sarà lo stesso scelto da Emmanuel Macron in Francia per arrivare alla guida del suo paese: in cammino. Se interpretato in modo letterale, in cammino, En marche, prevede una gerarchia di valori in base alla quale la forza che deriva dalle idee – e dalle rupture culturali – è infinitamente più importante dalla forza che deriva dagli equilibri e dall’algebra di un partito. Macron, per imporre le sue idee, ha scelto di rompere con le vecchie tradizioni politiche del passato. Specularmente, Renzi, partendo da una posizione di forza che Macron non ha (la guida di un partito), oggi può portare avanti una partita simile: scommettere su idee non convenzionali anche a costo di rompere con un pezzo di partito, partendo dal presupposto che l’Italia oggi si muove meno degli altri paesi europei non perché il Pd non è unito ma anche perché il Pd non è sufficientemente attrezzato per dare all’Italia la spinta che servirebbe sulle riforme pro mercato e sulla capacità di declinare con intelligenza la parola produttività.

 

Il discorso offerto ieri da Pier Luigi Bersani indica che persino uno dei vecchi campioni del riformismo sembra non capire bene il mondo in cui si trova. Bersani, come Renzi, ha parlato della minaccia populista ma ha sostenuto che per combattere il populismo serva non fare l’opposto dei Trump e delle Le Pen (opporsi al protezionismo aprendo il mercato il più possibile) ma stare attenti a non farsi rubare, da loro, temi e argomenti. Mai come oggi la vocazione maggioritaria non si può rincorrere con l’algebra, ma si può tentare di raggiungere portando avanti idee di rottura su temi trasversali. In questo senso, la paura di rompere con la sinistra non può più essere un alibi dietro il quale nascondersi. E se la malattia della sinistra è l’immobilismo, allora nessun dubbio: meglio la scissione.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.