Matteo Renzi (foto LaPresse)

Dopo la sconfitta al referendum l'alternativa c'è, ma è una commedia

Claudio Cerasa

Il quadro politico che si apre dopo la clamorosa disfatta di Renzi è molto confuso ma consegna una certezza: guardare negli occhi l’alternativa e poi farsi due conti

La batosta è stata clamorosa, la sconfitta è senza alibi, la sveglia è di quelle che non si dimenticano ma prima di provare a capire quale potrà essere il significato di una frase sibillina lasciata cadere lì da Renzi durante il discorso di domenica sera (“E’ ora di rimettersi in cammino”) dobbiamo riavvolgere il nastro e mettere insieme alcuni elementi utili per inquadrare una serie di temi chiave di questa fase politica: il futuro della legislatura, il futuro del segretario del Pd, il futuro della sinistra e il futuro delle varie e creative alternative che domenica scorsa hanno bocciato in massa non solo un progetto di riforma costituzionale ma anche una precisa idea di paese. Sui primi tre punti ce la caviamo con rapidità, sul quarto punto vale la pena di spendere qualche parola in più.

Il futuro della legislatura dipende oggi da alcuni fattori chiari e in particolare da una dialettica importante che si andrà ad aprire nelle prossime settimane: da una parte, il presidente della Repubblica cercherà di individuare un nuovo presidente del Consiglio che possa completare la legislatura e non limitarsi alla semplice stesura di una nuova legge elettorale; dall’altra parte l’ex presidente del Consiglio, Matteo Renzi, cercherà di dimostrare che questa legislatura deve concludersi il più presto possibile e che l’unico compito che dovrà avere il nuovo governo, di cui il Pd resta azionista di maggioranza, è cambiare l’Italicum, senza dover aspettare necessariamente la sentenza della Consulta, per poi andare dritti al voto anticipato. Il futuro del segretario del Pd dipende da mille variabili difficili da prevedere ma al momento non sembrano esserci alternative a un unico percorso difficile ma lineare: anticipare il congresso del Partito democratico, ricandidarsi rapidamente a guidare il Pd, provare a non far esplodere le mille contraddizioni presenti nel partito e gestire questa fase delicata marcando una distanza dal prossimo presidente del Consiglio e tentando così di trasformare in consenso personale i 13 milioni di voti conquistati dal Sì domenica scorsa. Le prossime ore ci aiuteranno a capire meglio quale sarà il futuro della legislatura e il futuro di Renzi ma prima di avere qualche elemento in più per orientarci in questa fase molto complicata bisogna andare al cuore del problema e far emergere in superficie il succo della questione politica. E il succo della questione lo si coglie provando a rispondere a una domanda facile: ma oggi, concretamente, che alternative ci sono?

Il discorso non riguarda la possibilità o no che vi sia un’alternativa di governo in questa legislatura (certo che c’è). Il discorso riguarda qualcosa di più importante. Domanda numero uno: c’è davvero, a sinistra, un’alternativa al modello di Pd aperto costruito da Renzi? Domanda numero due: c’è davvero, nel paese, un’alternativa concreta al progetto ultra maggioritario di Italia (l’Italia dei sindaci) perfettamente sintetizzato nel fronte del Sì al referendum costituzionale? La risposta alla prima domanda ci permette di allargare la nostra inquadratura e di affrontare un punto importante che riguarda lo stato delle sinistre europee. Ed è sufficiente soffermarsi su un qualsiasi grande paese dell’occidente per notare che il mondo progressista sta attraversando una delle fasi storiche più complicate della sua vita. Il Sudamerica è in mano ai partiti di centrodestra. Gli Stati Uniti sono stati conquistati da Trump. In Francia, per la prima volta nella storia della Quinta Repubblica, un presidente in carica e in salute non si ricandida per un secondo mandato. In Spagna la sinistra è stata sconfitta da Rajoy. In Germania non si trovano avversari validi contro Angela Merkel. In Gran Bretagna il laburismo è in crisi identitaria. In Grecia la sinistra di Tsipras sta precipitando nei sondaggi. Restano Malta (wow) e il Canada (gasp). E resta poi l’esperienza di Renzi che non si sa se verrà ereditata da qualcuno (forse dallo stesso Renzi) ma che nonostante la sconfitta è l’esempio plastico di una gauche che tenta di seguire l’unica strada possibile per una sinistra moderna: svecchiare le idee, fare i conti con i tabù del passato, confrontarsi con la contemporaneità, aprire il proprio recinto ideologico e avvicinarsi al futuro senza essere ostaggio dei fantasmi del passato. Renzi ha perso malamente il referendum ma il fatto che sia riuscito a mettere insieme praticamente da solo più o meno gli stessi voti incassati alle europee del 2014 (nel 2014 alle europee il Pd e Area popolare misero insieme 12.405.581 voti, domenica scorsa i voti totali messi insieme dal fronte del Sì sono stati 13.432.208, con un pezzo di Pd schierato per il No) ci dice qualcosa di significativo.

Ci dice che esiste un pacchetto di voti da cui può ripartire il progetto di una sinistra riformista. Una sinistra (alla Hollande) che si rifugia romanticamente nel passato e che si illude di archiviare il renzismo rincorrendo un’età dell’oro che non c’è mai stata è una sinistra che rischia di compiere un ulteriore suicidio archiviando l’unica esperienza moderna di sinistra riformista (alla quale si ispira non a caso nemmeno troppo implicitamente il candidato alle presidenziali della sinistra francese, il premier, ora dimissionario, Manuel Valls). Renzi ha commesso molti errori in questi mesi e la sconfitta del referendum ne è testimonianza diretta. Ma la batosta di domenica non la si spiega con gli eccessi di personalizzazione o con l’impianto sballato del Pd. La si spiega semmai mettendo in luce i due grandi passi falsi mossi dal Pd in questi mesi: non essere riuscito a mantenere un accordo di legislatura con Forza Italia e Berlusconi (se ci fosse stato il patto del Nazareno, il referendum avrebbe avuto un’altra storia); e non essere riuscito a coinvolgere nella sua azione di governo tutte le anime del Pd (Bersani ha fatto una scelta scellerata a schierarsi contro il referendum ma le responsabilità della frattura con un pezzo storico del Pd non sono soltanto del pezzo di partito che si è ribellato al segretario).

Il quarto punto della nostra analisi riguarda un’altra questione centrale che da molti punti di vista sarà il grande tema delle prossime settimane. Domanda semplice: quali sono le alternative a Renzi? Nel Pd la partita è da vedere (chissà che gli avversari di Renzi non cerchino da qualche parte un nuovo federatore alla Romano Prodi). Nel governo la partita è da giocare (chissà che il partito del 2018, cioè di chi punta ad arrivare alla fine della legislatura, non sia sufficientemente forte, nel Pd, da far saltare la leadership di Renzi anche nel partito). Ma il vero schema alternativo che emergerà chiaramente nelle prossime settimane è il modello politico che andrà a sostituire ciò che era felicemente incarnato nel progetto bocciato di riforma costituzionale. Se è vero, come abbiamo raccontato, che il referendum costituzionale avrebbe permesso al nostro paese di avvicinarsi a passi veloci verso un modello di democrazia della competizione, alternativa al modello di democrazia della concertazione, non c’è dubbio che da qui alla fine della legislatura risulterà chiaro che il modello opposto a quello offerto da Renzi coincide proprio con il contrario del modello maggioritario. E’ riduttivo e stupido dire che le conseguenze principali del No al referendum costituzionale sono la non abolizione del Cnel, il non taglio delle poltrone del Senato, la non riduzione dei costi della politica. Le conseguenze più importanti riguardano un’altra sfera: l’Italia, dicendo No al referendum costituzionale, ha accettato di dare una chance al partito dell’altra nazione e non è un caso che quel partito oggi sia fortemente orientato a dare una svolta proporzionale alla legge elettorale. E’ la natura delle cose: un fronte politico disomogeneo (Lega, Forza Italia, sinistra, Grillo) che si è ritrovato unito solo per far rotolare via la testa del proprio avversario oggi non può che ritrovarsi compatto (tranne alcune eccezioni) a promuovere una legge che sostituisce la concertazione alla competizione. Senza voler fare troppi giochi di parole il punto è evidente: da una parte c’era un tentativo di aprire il mercato della politica e creare un sistema che permettesse a qualcuno di vincere le elezioni; dall’altra parte c’è un tentativo di segno opposto che consiste nel chiudere il mercato della politica e creare un sistema di pesi e contrappesi infiniti dove le minoranze sono destinate a influenzare sempre di più le maggioranze relative e dove il primato della politica verrà sacrificato sull’altare delle supplenze alla politica (simbolicamente ci dice qualcosa di importante che la prossima legge elettorale potrebbe essere frutto non di una scelta del Parlamento ma di una scelta della Corte costituzionale). Da questo punto di vista è comprensibile che la scoppola subita da Renzi non abbia portato, al contrario di quello che sosteneva Renzi, al crollo dei mercati e delle Borse: in fondo, paradosso che oggi sta vivendo il Movimento 5 stelle, il percorso verso una democrazia della concertazione, in cui la grande coalizione rischia di diventare uno strumento non più straordinario ma ordinario per contrastare le forze anti sistema, nel breve termine (solo nel breve termine) può essere percepito persino come un elemento di stabilità (paradosso dei paradossi: il fronte “anti inciucista” che ha detto No al Renzi “professionista degli inciuci” contribuirà a far nascere il più inciucista tra i possibili modelli elettorali). Il quadro politico in cui muoveranno le loro pedine il presidente della Repubblica, il segretario del Pd e i molti vincitori-non-vincitori del turno referendario è più o meno questo e non ci vuole molto a capire perché Renzi cercherà in tutti i modi di andare a votare il prima possibile, per dimostrare che l’unica alternativa alla commedia del partito della concertazione resta comunque l’ammaccato ma ambizioso partito della competizione.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.